1982 Le Religioni dell’Asia Centrale

Le religioni dell’Asia centrale

DAL BRAHAMANESIMO PRIMITIVO ALL’HINDUISMO DI SHIVA E VISNU’

Nella tradizione Knshmira esistono parecchi miti e leggende che ne raccontano il passato. Il Nilamata è un antico e famoso testo, che narra la storia di un lago, incastonato tra i monti dell’Himalaya chiamato Satisar, o lago di Sati, dal nome di una delle consorti del Dio brahmanico Shiva, che è appunto Sati. Questo lago era il ritrovo delle divinità e sulle sue rive abitavano i Santoni. Questi ultimi erano disturbati nelle loro preghiere dal demone Jalodbhava che Sati stessa dovette annientare. Sati si trasformò in un comune sharika (un piccolo uccello) e dopo aver raccolto con il becco un sassolino, lo fece cadere sul nascondiglio del demone in fondo al lago. Il sassolino crebbe fino a divenire una montagnola che schiacciò ed uccise Jalodbhava. Esiste una collinetta a nord di Srinagar che si dice essere la stessa che uccise il demone. I Kashmiri la chiamano sharika-parbat, il colle dell’uccellino. Le acque del lago si ritirarono per volere di Shiva, secondo alcuni, di Vishnu, secondo altri. I più antichi re del Kashmir furono hindù. Tutti gli hindù nativi del Kashmir sono brahmani.

Brahma, il Creatore, è sorto forse nel tentativo di superare l’ostilità che divideva i seguaci di Vishnù, Dio conservatore dell’Universo, da quelli di Shiva, Dio Distruttore.

La religiosità hindù aggiunge alla certezza della nascita o della morte, le regole del Karma, cioè la legge per la quale ogni fedele sa che la rinascita è certa e che avrà un peso, nella vita futura, un giudzio sulle sue azioni compiute nella vita precedente. I buoni ricompariranno al vertice della scala sociale, i malvagi tra i fuoricasta o gli animali.

Le Divinità amano i sacrifici, come gli uomini amano i doni e gli amori, e gli Dei del Pantheon hindù sono visti dagli indiani in una misura e dimensione simile a quella dei comuni esseri umani: ne hanno gli stessi umori e desideri, soffrono la fame e la sete, hanno desideri carnali. unica differenza il corpo: non avendo vestito corporeogli Dei non sono esposti al pericolo del decadimento e della morte.

All’interno delle Caste e della comunità dei villaggi, la famiglia rimane la struttura più salda. E’ la più gelosa ed intransigente depositaria della tradizione. Il più importante dei rituali domestici è il sacrificio agli Antenati, con offerta di riso cotto e libagioni d’acqua. Questa cerimonia (sradda) ha luogo per la prima volta poco dopo la morte, è spesso complicata e costosa. Dopo la prima sono sufficienti cerimonie quotidiane più semplici, che devono essere compiute dal figlio maschio maggiore del defunto. Spesso le offerte quotidiane di fiori, incenso e cibo vengono fatte su piccoli altari dedicati ad uno degli Dei più importanti.  Questo semplice rituale (puja) ha largamente sostituito i sacrifici più elaboratitipici del brahmanesimo primitivo.

Al tempio, centro del culto della comunità, i sacerdoti preparano le offerte quotidiane alle divinità più importanti: Brahma, il Creatore, Vishnu, il Conservatore, Shiva. il Distruttore, Indra, personificazione dell’Energia racchiusa nella tempesta, un eroe amante de bere, spesso ubriaco, Kali, la nera, divinità Terrifica della morte, inghirlandata di teschi umani. Spesso si recitanoi testi sacri, si leggono brani dei Veda o del Bhagavad Gita o raccolte posteriori di miti e leggende locali. I Sacerdoti del tempio più rinomato della zona vengono incaricati di impartire l’educazione religiosa ai giovani delle Caste Superiori.

Milioni d1 divinità, altrettanti fedeli, che abbandonano la famiglia, moglie e figli, si spogliano di ogni ricchezza e di ogni passione e  dedicano interamente se stessi alla ricerca della verità. Sulle strade, nelle campagne, tra le rovine dei templi, chiusi nella loro meditatione, immobili al sole o nell’ombra più profonda. Vestiti di stoffe povere, talvolta completamente nudi, o con la pelle ricoperta di cenere grigia incrostata dal sudore. Meditazione, preparazione alla morte, rinuncia alla vita, ricerca morbosa di una sofferenza fisica, per motivi che sfuggono alla ragione, ma pure ad un senso religioso.

DALL’HINDUISMO ALL’ ISLAMISMO

I bhatta (hindù Kashmiri) vivono a fianco coi musulmani in tutte le città ed in quasi tutti i villaggi del Kashmir. Tra loro non si sposano non mangiano. I bhatta considerano tutti i mussulmani impuri, sebbene non allo stesso grado. I pastori, gli orafi e i latifondisti musulmani sono meno impuri dei macellai, dei conciatori di pelle e degli spazzini.

Né oggi, nè tantomeno nei secoli passati, alcun rapporto sembra poter legare e fondere il mondo musulmano, retto dalla semplice parola del Profeta (Maometto), e il mondo indiano, apparentemente disordinato ed ambiguo, dove tutto è vero e insieme falso, dove attraverso il gioco dei simboli e dei miti, l’unicità di Dio viene frantuma in un esercito di idoli, e ogni forma di culto può rendere omaggio alla pura essenza dell’eterno. In complesso l’islamismo benché corrotto negli strati inferiori dall’animismo, si mantenne puro e rigido. Gli edifici musulmani, famosi per la loro austera architettura, esprimono il puro e difficile monoteismo dei loro costruttori. Essi esprimono un gradevole contrasto con gli edifici sacri hindù, talvolta grossolani e spesso sporchi. Eppure, sul piano sociale, la salda visione mussulmana della vita e del mondo non tarda a incrinarsi nell’accettare un sempre maggior contatto con la realtà indiana. Insensibilmente ed inconsciamente, i musulmani adottano la rigida scala sociale indù, anziché abolirla secondo la predicazione di Maometto. Il tumultuoso  confondersi dei due mondi è qui peculiare. Particolare il colore degli abiti e dei palazzi (musulmani), la loro preghiera o il grido dei mercanti.

Il punto di partenza del pensiero musulmano è il Corano, il suo insegnamento è essenziale: l’unità della divinità, la totale dipendenza dell’uomo da Dio, la necessità del Profeta. Dio è grande e potente, creatore del cielo e della terra, padrone dell’universo: tutta la natura obbedisce ai suoi ordini. Egli è il primo e l’ultimo.

Il culto musulmano è semplice e dignitoso, segue una linea fissa di posizioni e di preghiere vocali: il ciclo comprende cinque ‘ore’ alba, mezzogiorno, metà pomeriggio, tramonto, sera prima di coricarsi. I fedeli non si scoprono il capo, ma si tolgono le scarpe o i sandali e dopo alcuni rituali si allineano con la faccia in direzione della Mecca, mentre l’officiante si pone un poco avanti a loro, al centro della fila. L’individuo per pregare nel tempo stabilito interrompe il suo lavoro, spiega la propria stuoia e compie da solo le medesime devozioni.

Il contatto tra induismo e islamismo creò una mentalità a mezza via tra quella hindù e quella musulmana, scrive un tessitore musulmano chiamato Kabir, che si unì al maestro hindù Ramananda :

  • Non è col digiuno, né ripetendo le preghiere ed il credo, che si giunge al cielo
  • Il sacro velo de]. tempio della Mecca è il cuore dell’uomo, se egli sa la verità
  • La tua mente sia la tua Kaaba, il tuo corpo il suo tempio interno
  • La coscienza il primo dei suoi maestri …. sacrifica l’ira, il dubbio e la malignità
  • Sia la tua pazienza a pronunciare le cinque preghiere
  • Hindù e musulmani hanno lo stesso Signore

Il BUDDHISMO MAHAYANA DEI LAMA.

Il buddhismo mahayana nella forma tibetana, più noto come lamaismo, si sviluppò nel terzo sec. A.C., nell’India settentrionale e nel Tibet. Tra le valli e le colline pre-himalayane si innalzarono decine e decine di monasteri dove stupa, templi e gigantesche immagini del Buddha, scolpito su pareti di roccia, continuano a testimoniare la fede dei pellegrini di un tempo.

Si racconta che il principe Gautama (fondatore del buddhismo) in quattro diverse occasioni gli capitò di vedere prima un vecchio, poi un malato, poi ancora un morto e infine un monaco. Queste immagini dell’infelicità umana e della pace lo portarono a riflettere profondamente sul significato dell’esistenza. Si unì ad un gruppo di asceti della foresta e si macerò in penitenza feroce, fino a ridursi uno scheletro e a cibarsi dei propri escrementi. Ma in queste irrazionali rinunce non trovò la chiave che risolve il dramma dell’esistenza umana. Attraverso una profonda meditazione in posizione seduta con le gambe incrociate (posizione del loto) raggiunse la perfetta serenità della mente, attraverso la quale passò all’onniscienza, per aprirsi poi alla consapevolezza della verità estrema.

La vita affonda le sue radici nel dolore; ci si può liberare dal dolore solo distruggendo i desideri di cui è intessuto ogni nostro atto ed ogni nostro sentimento. Allora non scompariranno le malattie, la vecchiaiala morte e la povertà, ma il saggio non soffrirà per loro causa.  In tal modo riuscirà a spezzare la ruota incessante  delle reincarnazioni mossa dal desiderio ed intrisa di dolore. Solo allora l’uomo si sentirà liberato da tutto ed al momento della morte egli potrà annullare nello stato del Nirvana la propria apparenza individuale.

Il Buddismo non ha mai usato la forza per imporsi; è stato tollerante nei confronti di altri modi di pensare ed ha inserito nell’ambito della propria filosofia tratti peculiari di altre fedi.

Qualche tempo dopo la morte di Buddha, la prima comunità (sangha) si suddivise in due: un gruppo sosteneva che le parole di Buddha dovessero essere considerate autorità assoluta  (hinayana) l’altro ribatteva che ciò che aveva inteso  dire era più grande di ciò che aveva detto (mahayana). L’hinayana è considerato un piccolo veicolo che può portare in salvo attraverso il mare tempestoso della vita un passeggero solo; il mahayana è il grande veicolo, perchè nella sua barca il santo può trasportare altre anime.

I buddisti del Tibet credono che il dentino degli esseri umani sia un interminabile e miserando ricorso di continue reincarnazioni. Nulla, è duraturo, e la sofferenza dilaga. Per ottenere l’estinzione delle passioni umane, causa della sofferenza, praticano una combinaziono di rituali e di meditazione: secondo una teoria lamaista, due correnti nervose assieme in un canale centrale, seguono la colonna vertebrale a partire dal muladhara e raggiungono la regione della ghiandola spinale in un punto chiamato sahashrara. L’Energia psichica che ha sede nel muladhara si chiama kundalini. Il canale è generalmente chiuso, per impedire a kundalini di risalire verso il bulbo sahashrara. Un grido vuota questo canale per far sì che l’energia psichica concentrata nel tronco possa salire fino alla sommità del cranio; se questa energia scende in basso essa inclina l’uomo al male ed alla reincarnazione, al ciclo infernale delle nascite e delle morti; se questa energia sale prepara l’uomo all’Illuminazione. Così, un iniziato può guidare verso il cervello e di là verso l’empireo l’anima di un defunto ancora prigioniera del corpo. Questo procedimentco è in grado di fornire all’iniziato tutti i poteri misteriosi di cui godono i grandi Lama, compresa la lievitazione, in attesa. dell’Illuminazione.  E’ un buddhismo irto di astrusi simbolismi (tantrico) e si compiace delle più complesse esperienze yoga e non disdegna neppure tecniche di liberazione basate  sullo scatenamento dei sensi e dell’erotismo. Sono i riti arcaici del mondo tibetano così estranei agli insegnamenti razionali e lineari dell’antico maestro a dirci quanto influsso sul  buddhismo locale ebbero i culti magici di preesistenti credenze animistiche. Credenze che hanno condizionato la mentalità di un popolo, dove da sempre fermentano le paure di divinità terribili, demoni, angeli, mostri, da chiamare in aiuto o esorcizzare.

In molte regioni del Tibet si considera normale che i ragazzi entrino in monastero in giovane età, e talvolta in età infantile a quattro o cinque anni. Come novizi, potranno apprendere a leggere e a scrivere, ed a officiare perfettamente le cerimonie rituali, il cui nucleo essenziale è il canto dei sacri testi. Molti terminata la prima educazione, fanno ritorno alle loro case; altri continuano a studiare teologia e ad approfondire l’arte della meditazione e dell’alta liturgia. Quelli che raggiungono un livello sufficientemente elevato diventano maestri e vengono chiamati Lama. Mirano tutti a una condotta di vita ascetica, e più alto è il grado raggiunto da un monaco e più rigorosa è la sua disciplina. Ci sono sacerdoti locali ai quali è consentito sposarsi, e che si occupano dei riti e delle cerimonie di tipo magico, con cui allontanano la grandine, le malattie e altre disgrazie.  Nei monasteri si coltivano da secoli tutte le arti: la pittura, la scultura, la letteratura. I monaci non riserbano solo a se stessi questi tesori di cultura, terminate le cerimonie religiose, nei villaggi in occasione di festività e celebrazioni locali i monaci indossano maschere e costumi ed eseguono fantastiche danze accompagnate dalla musica di  trombe, oboe e tamburi.

Maurizio Traverso