1981 Pongo

Pongo!

L’inizio non è dei migliori: a Quillabamba piove a dirotto, la stazione è un mare di fango, la salita al paese ci inzuppa malgrado K-way e mantelle, i negozi per le provviste conservabili non si trovano … ma Lucia con il suo solito culo -e sì che è magra- in meno di mezz’ora trova il passaggio per Kiteni: un poderoso, enorme camion coperto da un maleodorante telone a con il fondo fasciato da sacchi pulciosi ma, dopo la scatola di sardine chiamata treno, aver tutto quello spazio solo per noi sembra un sogno.

Otto ore otto di corsa su di una strada che definire tale è un eufemismo ci fanno arrivare a Kiteni per le undici di notte, con ossi sacri e ginocchia ammaccati, cervelletti rintronati, morti di fame e di sonno. Fuori tenebre e silenzio, cosa diavolo facciamo?  Niente, ci stendiamo alla  bellemeglio sul camion medesimo e finiano di ammaccarci anche le altre ossa per il resto della notte. Un’alba piovosa, grigia e fumosa ci trova dispersi lungo il fiume per impellenti bisogni troppo a lungo repressi, poi raccolti in un bar -quattro panche sgangherate all’aperto- a trincare caffè con pane secco. Chi cerca trova e dalle poche, misere capanne del villaggio riusciamo a tirare fuori banane, scatole di “sardinias”, pane, aranci e cervesa!

Alle otto siamo tutti sulla piroga con il maxi motore da 60 cv saldamente in mano al miglior barquero del paese e in compagnia di vari indigeni con figli e masserizie; queste piroghe, di forma filante e sottile, saranno senz’altro ottime per fendere le acque, ma sono anche dei capolavori di scomodità: stare ore seduti su tavolette larghe due cm o ratrappiti sul fondo non è uno spasso, ma, comunque sia, finalmente Pongo! Il leggendario. favoloso Pongo, temuto e bramato, mille volte descritto, oggetto di amore e di odio, è lì, davanti a noi coraggiosi che osiamo avventurarci nelle acque vorticose dell’Urubamba-Ucayali.

Sic, la prima sensazione è di delusione: forse troppo montati dai racconti dei predecessori, ci aspettiamo chissà cosa, cateratte impossibili, jungla a galleria, massi affioranti a tradimento, scimmie che saltano direttamente sulla barca, mentre la foresta è “selva alta” e per di più spelacchiata e bruciata dai coltivatori di banane, il fiume fa solo qualche piccola rapida e gli unici animali sono lontani Urubù.  In capo a poche ore però la situazione cambia radicalmente: ln corrente si è fatta violentissima, la pesante piroga sembra volare e ci vuole tutta la consumata abilità di Gregorio per tenerla sul filo, la foresta incombe scura ed impenetrabile mentre le rapide … … beh, a guardare il fiume si resta perplessi. La barca carica di persone e bagagli è trascinata come un fuscello tra le acque ribollenti, con improvvisi salti in basso, mulinelli schivati per un pelo, onde di rigurgito infilate con perfetta scelta di tempo e altrettanto perfetta inzuppata. Gli improvvisi urli del motore precedono di un attimo il grido ”tenetevi bassi” lanciato da Franco di vedetta a prora e gli urubù volteggianti raccolgono ora ben diversi commenti. A volte il fondale è tanto basso che dobbiamo scendere e proseguire a piedi lungo la riva mentre la barca, trattenuta con una corda dalla sponda, scende saltellando e facendoci tremare per i nostri poveri, ma preziosissimi bagagli.  Precipitiamo rapidissimi per circa due ore mentre l’orizzonte si chiude sempre più ai lati fino a ridursi a una vera e propria gola: ancora un restringimento ed eccoci nel cuore del Pongo. Il fiume ormai calmo e lento è racchiuso tra due altissime pareti che, contrariamente al nostro usuale concetto di gola, non sono aride e pietrose, bensì ricoperte (siamo ai tropici, non dimentichiamolo) di lussureggiante vegetazione, popolate di miriadi di uccelli e variegate da bianche cascate che sembrano scendere direttamente dalle basse nuvole gonfie di pioggia.  Al di là è la Jungla amazzonica, mentre il fiume si stende in pigri meandri e si allarga sempre più. In breve siamo a Tinpia, piccolo villaggio di indios Maquiguenga raccolto intorno alla missione e perciò snaturato nei suoi costumi originali. La visita è comunque interessante, l’ospitalità del padre missionario squisita, la gente curiosa ma gentile e riservata. Bucati, docce, mangiate, giri per il villaggio, tentativi di entrare nella jungla a piedi, -ma è veramente impenetrabile se non si dispone di un buon machete- tutto a spizzichi, condizionato da un autentico diluvio che ci costringe la maggior parte del tempo sotto la tettoia della missione.

L’indomani di primo pomeriggio, ritorno: sotto l’eterna pioggia riprendiamo i nostri scomodi posti sulla piroga, tutti un pò perplessi, perchè se tali erano le rapide prese in discesa, figuriamoci in salita.  Alla sera, dovendoci in ogni caso fermare prima del Pongo, ci concediamo un intervallo fuori del normale: ad un certo punto del fiume è arenato un finto-vecchio battello dell’800, arrivato fin lì per girare un film ed in attesa dell’acqua alta per ridiscendere. Sbarchiamo e prendiamo rapidamente possesso di ponti sovraccarichi di ottone, ci stavacchiamo su seggiole false 800, mangiamo su tavoli istoriati, corriamo per gabine e scalette, per una notte sembra di essere veramente tornati indietro nel tempo.

Il giorno dopo si balla, o meglio si sta fermi: il pur “mostruoso“ motore da 60 cv spesso non riesce a far avanzare di un millimetro contro corrente la piroga, mentre vere e proprie ondate ci lavano a dovere. Il bello è che a guardare l’acqua ti sembra di volare ma se appena alzi l’occhio noti che da un pezzo sei sempre a livello del medesimo albero. Più di una volta tratteniamo il fiato: basta infatti perdere per un attimo il filo della corrente perchè la barca si metta di traverso ed allora addio noi, nè d’altra parte la faccia seria e l’occhio attentissimo di Gregorio, che da un pezzo non parla più, contribuiscono a dare tranquillità. Tra l’altro rischiamo anche di rimanere senza benzina, visto che il buon barquero ne ha imprestati venti litri a uno in panne e rovesciati sbadatamente altrettanti sulla piroga. Direi tuttavia che abbiamo raggiunto un buon livello di confidenza con il fiume, (o di incoscienza?): malgrado tutto riusciamo infatti a mangiare tranquillamente, rimpinzandoci di residue scatolette e di frutta più o meno spiaccicata e fare impegnate discussioni di sociologia … alimentare.

Comunque sia, dopo circa sette ore siamo felicemente a destinazione: pacche sulle spalle e sospiri di sollievo; è stato bello, veramente.  Ed ora altro camion, altra pioggia, altra zuppa, altri zaini allagati, altro treno scatola di sardine, ma questa è  un’altra storia.

Maurizio Traverso