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Giovedì,
Venerdì, Sabato e Domenica 7-8-9-10/12
ANDORA – CONTINUA LA SCOPERTADELL’ENTROTERRA LIGUREIleana ci ospita
nella sua bellissima casa, con 8 posti letto. |
Programma di massima Mezzi Auto, circa 2.20 ore da Mlano Treno, diverse soluzioni, dalle 3.30 alle 4.30 ore Giovedì -Partenza da Milano in macchina verso le 8.30 In treno, da definirsi Domenica Verso le 14.30 si incomincia il
rientro Spesa prevista – Trasferimento Macchina circa 40 euro
solo andata per macchina (in 4 persone circa 10 euro a testa) Treno solo andata 20 euro
a testa (IC), 12.4 IR Pernottamento, ospiti di
Ileana 3 cene autocucinate
(almeno una grigliata di pesce)+ 3 spaghettate a mezzogiorno + colazione alla
mattina (cuciniamo noi) circa 30 euro a testa Pranzo di domenica, a
seconda di come lo si vuo,fare COME VEDETE SI TRATTA DI
UN GIRO TRA AMICI CON SUDDIVISIONE DELLE SPESE E SENZA QUOTE DI
PARTECIPAZIONE |
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Programma di massima Arrivo ad Andora dalla tarda mattina. Ci si
organizza per il dormire e si passa la giornata con una memoria di Thor
Heyerdahl, il noto esploratore. Infatti ha acquistato un piccolo villaggio
Colla Micheri, che sta dietro la casa di Ileana. Andremo a visitare questo
vecchio villaggio ligure ristrutturato da Heyerdahl e la torre presso la
quale riposano le sue ceneri. Quindi scenderemo a piedi a Laigueglia e
visitare questa antica cittadina con pianta araba. Il giorno dopo, ci avvieremo con calma ad
Alassio, dove, chi non l’ha già fatta, potrà farsi la via Julia, un tratto
dell’antica strada romana che collega Alassio con Alberga. Finendo poi con il
gironzolare per il centro storico di Alberga. In alternativa o
complemento ad Alassio, dopo aver visitato il muretto, proseguiremo per
Castelvecchio di Rocca Barbena, impressionante borgo fortificato con una
lunga storia. Passeremo 3 giornata a inventarci i più begli
scorci ed aspetti che l’entroterra ligura ci può permettere, di seguito
riportiamo alcune delle scelte più interessanti. Nel pomeriggio/sera del 10/12 riprenderemo la
strada per Milano. Il nostro piano è tutto in fieri, sono benvenuti
suggerimenti o critiche. Nei prossimi giorni sul sito la solita
documentazione. Spesa prevista, è ancora da definire, a parte le spese di
viaggio (da dividersi tra i partecipanti), pensiamo di stare nei 30 euro a
testa per 3 cene, 4 prime colazioni e 3 pranzi. Una grigliata (base pesce)
della sera è sicura, con un piatto di
spaghetti o simili per giovedì, venerdì e sabato a mezzogiorno. Per domenica,
tutto da inventare. Carlo, Grazia ed Ileana consigliano - Dolceacqua – Castello dei doria – Ponte romano – borgo antico medievale in pietra lavagna arroccato sulla collina - Apricale – Castello e borgo medioevale - Grotte di Toirano - Triora – il paese delle streghe, non possiamo garantire il rogo, ma portate la legna, non si sa mai, a nord di Sanremo - Sealza – vicino a Ventimiglia: valle coltivata a mimose - Albissola – Laboratorio e mostre dei ceramisti: - Cervo S.Bartolomeo conosciuta in tutto il
mondo per il teatro (è la piazzetta davanti alla chiesa a picco sul mare e
gli spettatori siedono sui gradini della chiesa) dove tutti gli anni si
svolge una serie di concerti di musica da camera. - Museo dell'Olio Carli, al porto di Imperia - Mercatino del pesce sulle banchine del porto - Giardini Hanbury, sul
mare, a metà strada tra Ventimiglia e Mentone. Il - Principato di Seborga, poco prima di Sanremo, su una collina a
6 Km E CON TANTE POSSIBILITA’ DI SCELTA, COMPRESA QUELLA DI ANDARE IN SPIAGGIA A PRENDERE IL SOLE (se ci sarà), DECIDEREMO SL POSTO CHE COSA ANDARE A VEDERE Riferimento Ileana: ileanagiopp@libero.it Oppure a Guido Platania Tel 334/6975885 - gp@helponline.it |
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Thor Heyerdahl
L'esploratore
norvegese Thor Heyerdahl per dimostrare una sua teoria, nel 1947,
percorse oltre 4000 miglia nell'Oceano Pacifico dal Perù fino alla
Polinesia, su una zattera di legno di balsa in compagnia di cinque
compagni di viaggio. Colla Micheri: Thor Heyerdahl
ristrutturò l'antico borgo e lo scelse come sua dimora sino al giorno della
sua morte. Kon-Tiki
La teoria: dimostrare che gli
Indii furono in grado di attraversare il Pacifico con le loro zattere,
navigando dal Perù alla Polinesia tra il 500 d.c. e il 1100. La leggenda Inca: Kon-Tiki fu il capo
religioso e Re degli uomini di carnagione bianca che lasciarono i grossi
ruderi del lago Titicaca. In un combattimento su un'isola del Lago, i sudditi
di Kon-Tiki furono uccisi. Solo Kon-Tiki ed i suoi più stretti seguaci
riuscirono a fuggire verso la costa e, attraverso il mare, scomparvero verso
ponente. La leggenda Polinesiana raccontata dagli anziani:
Tiki era allo stesso tempo dio e capo. Egli guidò i loro antenati sulle isole
della Polinesia. Prima abitavano in un paese lontano al di là dal mare. Altri elementi: furono diversi gli
elementi che convinsero Thor Heyerdahl che nel 500 d.c. una civiltà
proveniente dal Perù arrivò fino in Polinesia. Thor Heyerdahl raccontò le vicende della spedizione in un libro: Kon-Tiki. 4000 miglia su una zattera attraverso il Pacifico. |
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ANDORA La storia Ancora una volta è la tradizione antica di secoli a suggerire
l’origine di un insediamento. Nel caso di Andora sarebbero stati addirittura i
Focesi, popolo greco originario della Focide, a fondare Andora nel 753 a.C.
usandola come approdo per il commercio del sale che estraevano dai giacimenti
della vicina Corsica. Successivamente, giunsero i Romani dei quali ancora
oggi ammiriamo le monumentali testimonianze; ne è un esempio il tracciato
della via Julia Augusta che vicino al castello attraversa il torrente Merula,
con un ponte di ben dieci arcate. I secoli successivi alla caduta dell’Impero
romano vedono l’avvicendarsi di Longobardi, Vandali e Visigoti il cui dominio
terminerà nel 773 con l’arrivo di Carlo Magno. La leggenda narra che anche
qui, con il suo destriero, giunse Aleramo, capostipite di quegli Alerami che
dominarono vasti possedimenti nella regione ed oltre. Si succederanno poi i Del
Vasto, i Del Carretto e i Clavesana i quali fecero costruire nel 1170
l’attuale castello che sovrasta la valle e il torrente Merula. Il maniero nel
1237 passò ai Doria e infine fu ceduto alla Repubblica di Genova nel 1252.
Vicino al castello sorgeva il nucleo originario di Andora, circondato da
mura, che nel 1321 fu centro di una violenta battaglia tra guelfi e
ghibellini. Si dice poi che il borgo fu abbandonato a causa di due terribili
pestilenze: la prima nel 1493 e la seconda nel 1524. Da vedere e da… ascoltare Andora è ricca di storia e testimonianze del passato. Ecco una breve
carrellata: chiesa dei Santi Giacomo e Filippo [detta “a Gesa de Castellu”
(XIII secolo) con tre navate e tre absidi e la bella arcata del portale a
tutto sesto], Porta-Torre Campanaria [risalente al XIII secolo, conserva
internamente un affresco del XV secolo], il Ponte Romano [lungo 100 m. e
largo 2 m., con la struttura a “schiena d’asino” a dieci arcate], l’Oratorio
di S. Nicolò [risalente al 1000 o prima che insieme a quello di S. Caterina
dei Disciplinanti vide le antiche processioni delle Confraternite Religiose
innalzare la notte salmi e preghiere alla luce tremula delle lanterne], il
Torrione Saraceno [del XVI secolo], la chiesa della Santissima Trinità [in
frazione Rollo, risalente al 1600, ma edificata sull’antico oratorio del 1300
fondato dalle popolazioni provenienti da Briga e da Tenda scampate alla
peste], la chiesa dei santi Giacomo e Filippo dove nelle belle sere d’estate
potrete assistere ai numerosi concerti organizzati per la rassegna
dell’Estate Musicale di Andora. Antiche leggende È la chiesa di S. Giovanni con l’ingresso posto stranamente a monte,
contrariamente all’ordine prestabilito nelle costruzioni religiose, che ci
ricorda un’antica leggenda. Si dice che proprio nella chiese venne
assassinato un nunzio apoastolico inviato dallo stesso papa; sarebbe così
giustificato secondo una nota tradizione, lo spostamento della porta
d’ingresso per dimenticare il misfatto. Il Papa però decretò anche la
scomunica e questa scatenò un’invasione di formiche che non risparmiò nulla,
neppure i neonati nelle culle. Poi avvenne il miracolo: da un pesco maturò un
solo frutto che venne portato al Pontefice in segno di pace. La scomunica fu
così ritirata. Storie saracene La storia narra della bella Andalora, ragazza del posto, che era
promessa sposa a tale Stefanello. Un giorno arrivarono i Saraceni e la
ragazza fu rapita dal principe Al Kadir e portata lontano. Stefanello non si
arrese, li inseguì fino a raggiungerli; i due amanti si ricongiunsero, ma
durante la fuga vennero però scoperti. A quel punto Andalora, vedendosi
perduta, chiese a Stefanello di ucciderla pur di sfuggire ai suoi rapitori.
Il ragazzo la pugnalò e con lei si gettò in mare morendo annegato con la sua
amata. Negli anni successivi si dice che le anime dei due infelici vagassero
per molto tempo fino a quando gli abitanti dei due villaggi diedero ai paesi
i nomi di Andalora e Stefanello, mutati poi in Andora e Stellanello. Sabba ad Andora Le volete vedere? Se sì, allora dovrete andare presso U cianelun de
basure che non è che un prato tra Andora e Stellanello dove si dice che le
streghe si radunino la notte del venerdì. Il serpente custode È una leggenda tramandata oralmente sino ai giorni nostri quella
secondo la quale una serpe con un ornamento d’oro sul capo sarebbe custode
delle pinete di Turia vicino ad Andora. Reminiscenza forse di qualche
divinità pagana? Proverbi “Se piove per la Candelòra, de l’inverno sémmo fòra”
Thor Heyerdahl, la leggenda Un paese piccolo e ridente, a ridosso dei primi colli tra Andora e
Laigueglia; era la fine degli anni ’50 quando qui, si stabilì uno degli
uomini “leggenda” del secolo scorso. Thor Heyerdhal, esploratore etnologo
norvegese divenuto famoso per l’impresa del 1947, quando attraversò il
Pacifico a bordo di Kon-Tiki, una zattera di legno. Da allora molti cittadini
provenienti dai paesi del nord, sulle orme del proprio concittadino, si
stabilirono nel paese ligure. Con l’impresa del 1947 volle dimostrare che
l’Isola di Pasqua era popolata da sudamericani; gli occorsero 101 giorni di
navigazione insieme ad un equipaggio di cinque uomini per raggiungere
l’atollo di Raroa. Da questo viaggio trassero un film, premiato con un Oscar,
e un libro che ebbe popolarità in tutto il mondo. Nel 1969 e nel 1970 si
cimentò in altre due spedizioni per l’occasione con una barca di papiro
chiamata “Ra”; l’intenzione era quella di attraversare l’Oceano Atlantico
partendo dal Marocco. Il primo tentativo fallì, ma il secondo, sotto la
bandiera dell’ONU, fu un successo. Nei suoi progetti c’era posto ancora per
un ultima esplorazione: la ricerca di Asgaard, la mitica terra degli Asi,
secondo le sue teorie, sepolta ad Azov, vicino al Mar Nero. Nato a Larvik nel
1915 si è spento a 87 anni dopo essere stato dimesso il 18 aprile 2002
dall’ospedale S. Corona di Pietra Ligure. Aneddoto Visitando Colla
Micheri, nucleo di origine romana, avrete l’opportunità di conoscere una
pagina di storia “internazionale”. Una lapide posta sulla porta della chiesa
di S. Sebastiano ricorda Papa Pio VII che proprio qui sostò al ritorno dalla
sua prigionia a Fontainebleau per opera di Napoleone (1814). |
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Durata: 3 - 4 ore. Periodo consigliato: tutto l’anno. Difficoltà: molto facile. Emergenze
Naturalistiche, Storiche e Architettoniche: vegetazione
mediterranea, Colla Micheri, pineta di Pino d’ Aleppo, mulino a vento,
panorama sull’intero golfo ligure, ruderi della chiesa medioevale di San
Damiano, possibilità di osservare numerose specie di uccelli. Descrizione dell’itinerario:
Il percorso inizia in ambiente di macchia mediterranea nella quale vegetano
l’Alaterno, il Pino d’Aleppo, varie specie di ginestre, ed altre piante caratteristiche delle
nostre zone costiere. Proseguendo si attraversa un piccolo bosco di roverelle
e pini d’aleppo, giungendo ad una strada che porta prima in un vecchio
uliveto, e dopo all’antico borgo medioevale di Colla Micheri (163 m. s.l.m.),
posto in stupenda posizione
panoramica. Da Colla Micheri si giunge ad una delle più ampie e
caratteristiche pinete di Pino d’Aleppo della nostra regione, seguendo il
crinale si abbandona questa formazione vegetale, raggiungendo prima un antico
mulino a vento, e successivamente un eccezionale punto panoramico aperto
sull’intero golfo ligure. L’ultima parte del nostro itinerario conduce ai
resti della chiesa di San Damiano. Il percorso “ad anello” consente di
ammirare nuovi ambienti, sempre dominati dalla vegetazione mediterranea e
popolati da una numerosa avifauna. |
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LAIGUEGLIA Note storiche È una classica cittadine ligure, oggi meta
balneare, ma di antiche origini marinare; è nei budelli che si respira
maggiormente quest’atmosfera in cui tradizione e sviluppo hanno trovato un
buon compromesso; il turismo ha saputo dare un futuro florido alla comunità
sostituendo attività oggi completamente scomparse quali la pesca del corallo,
il commercio marittimo e l’artigianato. A testimoniare il trascorso delle
nobili famiglie di Laigueglia e della loro ricchezza ci sono la parrocchiale
di S. Matteo, risalente al settecento, e gli antichi palazzi. Sappiamo che
nel medioevo fu dapprima feudo dei Vescovi di Albenga e che nel 1162 per
volere del Barbarossa passò ad Anselmo de Quadraginta. Le origini Le origini di Laigueglia risalgono al periodo romano
quando si chiamava Aquilia, l’abitato sorgeva nei pressi della già citata via
Julia Augusta che da Laigueglia abbandonava il percorso sul mare per
inerpicarsi sino a Colla Micheri. Nei secoli XII e XIII fu dominio di Genova
e a quel periodo risalgono le massicce migrazioni di Catalani che si
stabilirono sulla costa per dedicarsi alla pesca del corallo vicino a Capo
Mele. I Catalani diedero origine a nuclei di famiglie che tuttora discendono
dal ceppo; a Capo Mele, testimone di quel lontano periodo, è rimasta la
Cappella della Madonna delle Penne. Curiosità Anche a Laigueglia le incursioni saracene non mancarono; a testimonianza delle difese di un tempo è rimasto il “Bastione di Levante” o “ del cavallo”, uno dei tre torrioni cinquecenteschi che stavano a guardia del borgo. Nel tempo questa fortificazione, costruita sulla spiaggia, fu adibita sia a carcere che a lazzaretto per i marinai con malattie infettive. Il torrione del Giunchetto, sovrastante Capo Mele, fu distrutto invece da Napoleone così come fu abbattuta la “torre di Mezzo” o “Castello” su cui sorse il Palazzo Rosso. Il cannone di bronzo di cui era dotata venne fuso per creare la campana della parrocchiale di S. Matteo. |
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DOLCEACQUA Dolceacqua è facilmente raggiungibile: giungendo con
l'autostrada A10 Genova-Ventimiglia, è consigliabile uscire ai caselli di
Ventimiglia o Bordighera, dai quali s'imboccherà la S.S. Aurelia, e quindi la
strada provinciale della Val Nervia. Ventimiglia dista circa 8 km ed è sede
di stazione ferroviaria internazionale; da qui un servizio di corriere
consente di raggiungere agevolmente Dolceacqua. L'aeroporto internazionale
più vicino è quello di Nizza, il quale dista 50 km.
Dolceacqua, pur essendo un piccolo Borgo ha un grande numero di
eventi nel corso di tutto il periodo dell’anno. |
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San
Bartolomeo al Mare FLORA, FAUNA E SPIAGGE D'ORO San Bartolomeo al Mare è adagiato
lungo la costa, a levante da Imperia. Si può raggiungere in breve tempo con
l’autostrada (casello omonimo), con la linea ferroviaria e le linee autobus e
anche dall’aeroporto di Villanova d’Albenga. Situato in una posizione
climatica davvero felice, San Bartolomeo al Mare è una tipica località ligure
in grado di offrire mille volti che cambiano durante l’anno e capace di
soddisfare le esigenze di ragazzi (discoteche e divertimenti della bella
spiaggia sabbiosa), delle famiglie e dei meno giovani, grazie alla piacevole
e rilassante passeggiata. Al tempo prolificarono i
“castellari”, fortificazioni strategiche sui poggi, e gli “oppida”, dove
stavano i governanti. Dal 300 a.C. cominciarono le scorrerie celtiche;
durante le guerre puniche, il territorio si schierò dalla parte dei
Cartaginesi nemici dei Romani, a loro volta alleati dei Greci. Nel 13 a.C.
grande impulso ebbe il progetto della via Julia Augusta che portò allo
sviluppo della “mansio” di Diano, le cui estensioni sono ancora
rintracciabili presso il Santuario di Ns della Rovere a San Bartolomeo al
Mare. Con la decadenza dell’Impero romano, la costa imperiese cadde sotto le
invasioni barbariche e le scorrerie saracene. Attorno all’anno Mille, per il
terrore della fine del mondo si susseguirono le donazioni agli ordini
religiosi e si crearono feudi sotto i vescovi. Dalla fine del ‘400 si
consolidò la pesca del corallo, tanto che un secolo dopo nacque l’ “Impresa
di Bosa” (dall’autorità sarda) tra Cervo, Diano e San Bartolomeo al Mare che
costituivano una “barcarezza”, flottiglia di barche scortate per precauzione
contro i pirati. Tra le imbarcazioni la tartana, il leudo, la polacca, la
gondola, la feluca, il cutter, la lombarda. Nei secoli si alternarono la
Repubblica di Genova e il Piemonte, poi la dominazione napoleonica e il
ritorno al Regno d’Italia. Nel 1891 la popolazione residente era di 993
abitanti. Tutto l’imperiese, infine, soffrì la tragedia della Seconda Guerra
mondiale. SPECIALITA’ LOCALI |
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Escursioni: al Colle di Scravaion (m. 820 s.l.m.); alla Rocca Barbena (m. 1142), che domina il paese; al Pizzo Ceresa (m. 714) o al Poggio Grande (m. 802). Ricordiamo infine che nei pressi di Castelvecchio di Rocca Barbena passano l'11^ e la 12^ tappa dell'Alta Via dei Monti Liguri; il posto di tappa relativo e presso «Trekking Rocca Barbena», in frazione Giro di Loano (tel. 78053). |
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LA STORIA DI TRIORA di Andrea Gandolfo DALLA PRIMA ETA' MODERNA AL 1815 Nel
1498, in concomitanza con la discesa in Italia delle truppe francesi guidate
da Carlo VIII, Triora venne saccheggiata e incendiata dal duca Serranono, che
faceva parte del seguito del re di Francia. Nello stesso anno, per risarcire
gli ingenti danni subiti dal paese, venne istituita una Universitas
crematorum hominum Trioriae, che aveva appunto il compito di aiutare
finanziariamente le persone che avevano subito i maggiori danni a cose e
abitazioni. Tre
anni dopo, il 25 marzo 1501, Triora concluse un altro trattato di amicizia e
buon vicinato con Saorgio. Nel 1512, in occasione della nomina di Antoniotto
Adorno a doge di Genova in sostituzione di Ottaviano Fregoso, i pittori
Giovanni Battista Braida di Genova e Angelo Chierico o del Chierico di
Messina, come era uso ad ogni cambiamento del governo genovese, dipinsero la
bandiera di Genova e lo stemma del nuovo doge sulla facciata del palazzo
comunale triorese. Al
1519 risale invece una terza convenzione con il comune di Castelfranco, di
cui però non è stata conservata la relativa documentazione. Come era già
avvenuto nel 1512, essendo succeduto un nuovo doge a Genova, i pittori Pietro
Caminata di Genova e Raffaele Fassòlo dipinsero nel 1522 le insegne genovesi
(bandiera e stemma del nuovo doge) sulla facciata del palazzo del comune. Nel
1531 Genova istituì a Triora una scuola pubblica, assegnando al relativo maìsto
(maestro) lo stipendio annuo di 200 lire. Nello
stesso anno si svolse un censimento generale della popolazione residente a
Triora, da cui risultava che il paese di Triora era abitato da una
popolazione stimabile in 500 fuochi, corrispondenti a circa 2500 abitanti,
mentre gli abitanti dell'intero territorio comunale erano stimati in 680
fuochi, ossia 3400 abitanti. Il fuoco corrispondeva all'incirca a un nucleo
di 5 persone. Nel
1556 la parrocchia di Triora venne definitivamente trasferita nella chiesa
della Collegiata, abbandonando la chiesa madre dei Santi Pietro e Marziano,
che era stata edificata al di fuori dell'abitato. L'anno successivo, il 1557,
registra la visita a Triora di Giovanni Lovera, inviato dal duca di Savoia da
Cuneo a Bruxelles. Lovera aveva percorso la mulattiera che da Tenda portava a
Taggia, facendo così tappa a Triora. Da Taggia proseguì quindi per Genova e
Milano giungendo infine in Belgio dove venne ucciso l'anno dopo. Le più
significative impressioni della sua sosta a Triora sono state descritte da
Lovera nel suo diario di viaggio. Il
20 luglio 1564 un forte terremoto devastò il Ponente ligure e il Nizzardo; a
Triora si ebbero numerose case rovinate dal sisma. Nel 1573 venne stipulata
una terza convenzione, dopo quelle del 1441 e del 1497, con il comune di
Taggia, di cui non è però rimasta traccia documentaria. Due anni dopo, nel
1575, la castellana del marchesato di Maro (oggi Borgomaro) signora d'Urfè,
chiese a Genova, nell'ambito della contesa dinastica che contrapponeva il
marchesato di Maro al marchese e ammiraglio de Villars, di ordinare ai suoi
ufficiali che erano di stanza a Triora di non concedere passaggio, favori,
aiuti, vettovaglie e munizioni ai soldati del marchese de Villars. Nel 1579
Bernardino Alberti, notaio e fine scrittore di versi in latino e italiano,
dotò Triora di una nuova scuola pubblica, che si affiancò o forse sostituì
del tutto quella fondata da Genova nel 1531. Verso
la fine dell'estate del 1587, durante una carestia che aveva duramente
provato la popolazione triorese e che durava da oltre due anni, gli abitanti
di Triora, particolarmente stremati, iniziarono a sospettare che a provocare
la carestia che stava flagellando le campagne del paese sarebbero state delle
streghe locali, dimoranti nel quartiere detto della Cabotina. Dopo essere
state individuate, le streghe trioresi vennero subito additate alla
giustizia. Il Parlamento generale, dopo essersi riunito, affidò al podestà
del paese Stefano Carrega l'incarico di fare in modo che le streghe venissero
sottoposte ad un regolare processo e stabilì anche la somma di denaro
occorrente per lo svolgimento del processo. Carrega
chiamò allora il sacerdote Girolamo Del Pozzo, in qualità di vicario del
vescovo di Albenga, dalla cui curia dipendeva Triora, e un vicario
dell'Inquisitore di Genova. I due vicari, giunti a Triora ai primi di
ottobre, iniziarono quindi il processo dopo che Del Pozzo, con una infuocata
predica nella chiesa della Collegiata, aveva denunciato le diaboliche
"malefatte" operate dalle streghe a Triora eccitando in tal modo la
collera del popolo triorese verso di loro. I
due vicari fecero allora arrestare una ventina di streghe, che vennero subito
rinchiuse in alcune case private adattate a carcere delle streghe,
dichiarandone subito colpevoli tredici, più quattro ragazze e un fanciullo.
Dal momentò però che tali streghe, forse per estorcere loro la confessione
delle loro "malefatte", venivano sottoposte ad atroci torture, ed
avevano denunciato diverse "complici", tra cui non poche
appartenenti alla nobiltà locale, la popolazione triorese iniziò ad
intimorirsi e a nutrire dei dubbi sulla corretta condotta dei due vicari
tanto da indurre il Consiglio degli Anziani, un organismo che rappresentava
le famiglie più altolocate e benestanti di Triora, a intervenire presso il
governo di Genova affinché questo facesse interrompere un processo che non
dava più alcuna garanzia, soprattutto in merito all'incolumità fisica delle
streghe, tra le quali una, Isotta Stella, era morta in seguito alle torture
subite, e un'altra era deceduta per le ferite riportate nel gettarsi da una
finestra per sfuggire ai suoi aguzzini. Il
13 gennaio 1588, con una lunga lettera inviata al governo genovese, gli
Anziani di Triora espressero le loro lamentele in merito alla condotta dei
due vicari, giudicata eccessivamente severa nel valutare la colpevolezza
delle streghe, che erano state arrestate solo in forza di indizi molto dubbi o
perché denunciate da altre donne sottoposte ad indicibili tormenti ed erano
costrette a rimanere in carcere nonostante non avessero confessato alcun
crimine. Gli Anziani rimproverarono inoltre ai due vicari il fatto di tenere
ancora in prigione donne che, per quanto tormentate, non avevano confessato
niente e di non riconoscere innocenti delle deboli donne che avevano
confessato e ritrattato in mezzo ad atroci tormenti. Il
doge e i governatori genovesi, dopo aver ricevuto la lettera degli Anziani di
Triora, scrissero il 16 gennaio una lettera al vescovo di Albenga Luca
Fieschi, facendogli presente le proteste che aveva causato il comportamento
del suo vicario Girolamo Del Pozzo a Triora. Il 25 gennaio il vescovo Fieschi
inviò a Genova una circostanziata lettera scritta da Del Pozzo, con cui il
vicario ingauno si giustificava del suo operato ispirato, secondo lui, a
criteri di legalità e giustizia e non condizionato dalle decisioni del
Parlamento triorese, discolpandosi in particolare dall'accusa di aver torturato
ingiustamente con la tortura dei tratti di corda le streghe incarcerate, tra
cui, come si è ricordato, la sessantenne Isotta Stella, che era morta proprio
in seguito ai patimenti subiti, e la donna che si era gettata dalla finestra,
di cui Del Pozzo giustifica la fine dicendo che si era buttata non per paura
delle torture che le si minacciavano, ma perché "tentata" dal
diavolo. Il vicario si discolpò anche dalle accuse di non aver provato a
sufficienza la colpevolezza delle donne incarcerate e torturate, che, tenne a
sottolineare, erano in numero inferiore a quello che si voleva esageratamente
far credere. Il
nuovo atteggiamento assunto da Del Pozzo placò comunque l'ira del Consiglio
degli Anziani, che in una lettera al governo genovese del 20 gennaio, si
diceva sostanzialmente soddisfatto dell'operato di Del Pozzo, soprattutto per
il fatto che il vicario del vescovo di Albenga aveva rinunciato a incarcerare
delle donne appartenenti alla nobiltà locale, di cui molti membri facevano
parte dello stesso Consiglio degli Anziani. Anche il podestà Carrega si
associò al parere degli Anziani scrivendo una lettera al governo genovese il
21 gennaio, in cui difendeva l'operato dei due vicari scagionandoli tra
l'altro dall'accusa di aver provocato con le loro torture la morte di Isotta
Stella e dell'altra donna che era deceduta in seguito alla caduta dalla
finestra. Intorno al 10 gennaio i due vicari erano nel frattempo partiti da
Triora lasciando in carcere tutte le streghe arrestate. Ai
primi di febbraio il Parlamento triorese, con una lettera inviata al governo
di Genova, supplicò i governanti genovesi di provvedere alla revisione dei
processi contro le donne trioresi accusate di stregoneria affinché le
colpevoli fossero punite e le innocenti liberate e il popolo di Triora
liberato dall'onta di annidare al suo interno delle donne eretiche. Il
governo genovese allora, anche per tutelare i legittimi diritti dei suoi
cittadini, decise di inviare a Triora l'Inquisitore Capo, che vi giunse ai
primi di maggio del 1588. Egli ascoltò le donne incarcerate, che era erano
detenute da cinque mesi e che negarono tutte, tranne una, quanto avevano
confessato in precedenza ai due vicari, e decise di tenerle tutte in carcere
meno una, una fanciulla di 13 anni, che venne liberata e il 3 maggio abiurò
nella chiesa della Collegiata durante la celebrazione di una messa solenne. L'8
giugno 1588 giunse a Triora il commissario straordinario Giulio Scribani,
inviato dal governo genovese per fare chiarezza sui processi intentati alle
streghe. Qualche giorno dopo l'arrivo del commissario Scribani, il nuovo
podestà del paese Giovanni Battista Lerice, in seguito ad un ordine ricevuto
dal Padre inquisitore di Genova, mandò a Genova per la revisione del processo
le streghe detenute nelle carceri di Triora. Il locale bargello, ossia il
capo della polizia, Francesco Totti si occupò del trasferimento delle tredici
donne trioresi accusate di stregoneria, che gli vennero consegnate il 27
giugno. Intanto Scribani intentò regolari processi a diverse donne di Triora
e dei dintorni, arrestandone diverse e sottoponendole ad atroci torture, che
provocarono da parte del popolo le stesse lagnanze che si erano avute contro
i due vicari qualche tempo prima. Secondo
una relazione inviata in giugno al governo genovese, Scribani individuò tre
donne di Andagna, Bianchina, Battistina e Antonina Vivaldi-Scarella, che,
benché non sottoposte ad alcun tormento, si erano dichiarate colpevoli di
enormi delitti, tra cui anche omicidi di bambini innocenti di Andagna. Il
commissario intentò processi anche contro una ventina di donne di
Castelfranco, Montalto Ligure, Porto Maurizio e Sanremo. Il 22 luglio
Scribani mandò quindi a Genova i verbali degli interrogatori delle streghe
accompagnandoli con la richiesta di condanna a morte per quattro donne di
Andagna. Appena ricevuta la documentazione inviata da Scribani, il governo
della Repubblica affidò al suo auditore e consultore Serafino Petrozzi il
compito di decidere in merito alle richieste avanzate da Scribani. Petrozzi
respinse però tutte le conclusioni e le proposte di pena del giudice
Scribani, sostenendo che non si potevano adottare provvedimenti punitivi
mancando delle prove certe e inconfutabili. Il
primo di agosto il governo genovese invitò quindi Scribani, a cui era stata prorogata
di un mese la missione a Triora, a mandare le prove relative ai delitti
commessi dalle streghe come richiesto dall'auditore Petrozzi. Sette giorni
dopo, l'8 agosto, Scribani rispose da Badalucco che non poteva inviare alcuna
prova in quanto i delitti o erano stati commessi molto tempo prima cadendo
perciò nell'oblio o erano avvenuti in luoghi fuori dai confini della
Repubblica genovese. Sostenne però che i delitti consumati dalle quattro
streghe di Andagna erano tutti sufficientemente provati. Nonostante ciò, in
seguito alle obiezioni avanzate dal governo genovese, egli dovette rifare i
processi a carico delle streghe di Andagna, che, con sentenza emessa il 30
agosto, vennero condannate a morte. A
Genova si decise allora di affiancare due altri commissari, il podestà
Giuseppe Torre e Pietro Alaria Caracciolo, al giudice Petrozzi affinché si
pronunciassero nuovamente sulle decisioni prese da Scribani. Messisi subito
al lavoro, i tre giudici, contrariamente a quanto stabilito in un primo
tempo, diedero parere favorevole alla condanna a morte delle quattro streghe
di Andagna e di altre due streghe di Badalucco e Castelfranco, Peirina
Bianchi e Gentile Moro. Dopo la decisione dei tre giureconsulti, il Senato
genovese approvò la condanna a morte di cinque delle streghe accusate di
delitti ordinando contemporaneamente di scrivere al vescovo di Albenga,
affinché, prima che venissero eseguite le condanne a morte, le cinque
condannate fossero riconciliate con la Chiesa. Poco
prima però di dar corso alle sentenze contro le cinque streghe con
impiccagione e conseguente bruciatura dei cadaveri da eseguirsi quattro a
Triora o ad Andagna e una a Castelfranco, giunse da Genova l'opposizione
all'esecuzione delle sentenze da parte del Padre Inquisitore, che sostenne che
prima di eseguire qualsiasi condanna a morte nel territorio della Repubblica
genovese, spettava a lui, ossia alla Santa Inquisizione di Roma da cui egli
dipendeva, fare il processo sui quali aveva diritto di giurisdizione
l'autorità ecclesiastica. Il
27 settembre 1588 il governo genovese informò quindi la Congregazione del
Sant'Uffizio di Roma di aver accolto la domanda del Padre Inquisitore. Nel
mese di ottobre il commissario Scribani inviò a Genova le quattro streghe di
Andagna e una certa Ozenda di Baiardo, lamentando il fatto che la popolazione
locale era rimasta molto delusa per la mancata esecuzione delle cinque
condannate. Giunte a Genova via mare, le cinque donne vennero subito
rinchiuse nelle carceri dell'Inquisizione. Poco tempo dopo il governo genovese
mandò a Roma agli uffici della Congregazione del Sant'Uffizio gli atti
relativi ai processi alle streghe incriminate. La
Congregazione tenne però gli atti per lungo tempo senza addivenire ad alcuna
decisione tanto che il doge e i governatori genovesi scrissero più volte a
Roma nel febbraio e nell'aprile del 1589 affinché il Sant'Uffizio prendesse
quanto prima una decisione in merito. Il 28 aprile 1589 il cardinale di Santa
Severina, a nome della Congregazione, assicurò il governo di Genova che erano
stati impartiti ordini tassativi per una rapida conclusione della causa. Il
27 maggio il doge e i governatori di Genova sollecitarono nuovamente la
Congregazione, tramite il cardinale genovese Sauli, perché concludesse in
tempi brevi la revisione del processo. Intanto, delle donne accusate di
stregoneria detenute nelle carceri dell'Inquisizione genovese, due, tra
quelle condannate a morte, erano nel frattempo decedute, mentre, delle
tredici inviate da Triora nel giugno 1588, tre erano morte e le altre erano
state probabilmente rimandate libere al loro paese natale. Il 28 agosto 1589
il cardinale di Santa Severina annunciò al governo genovese che il
procedimento di revisione del processo era finalmente terminato. Da
quanto riferito dal cardinale di Santa Severina al governo di Genova, si può
dedurre che il tribunale della Santa Inquisizione aveva presumibilmente
cassato alcune delle condanne a morte comminate dall'autorità ecclesiastica
genovese, stabilendo con ogni probabilità che le ultime tre streghe rimaste
ancora nelle carceri genovesi venissero scarcerate. Nello stesso mese di
agosto la Santa Inquisizione decise anche di aprire un procedimento contro il
magistrato genovese Giulio Scribani per aver invaso il campo riservato
all'autorità ecclesiastica. Di
fronte però alla strenua difesa dell'operato del proprio giudice sostenuta
dalla Repubblica genovese, che ne aveva raccomandato l'assoluzione, i
cardinali inquisitori decisero intorno al 10 agosto di assolvere Scribani con
formula piena purché egli ne facesse pubblica richiesta al vicario
arcivescovile di Genova, come infatti avvenne pochi giorni dopo. Il processo
alle streghe di Triora del 1588 contribuì tra l'altro a mettere in luce le
complesse motivazioni che erano alla base dei contrasti tra Stato e Chiesa in
merito ai processi alle streghe, la grande facilità con cui tribunali di
diversa natura si rimproveravano tra loro di eccessiva severità e le non
lievi responsabilità dei giudici dell'epoca nel condannare senza adeguate
prove, e spesso alla pena capitale, le donne accusate di stregoneria. Il
6 gennaio 1592, sotto il governo del podestà Lodisio Canessa, il Parlamento
generale affidò ad una commissione di esperti e giureconsulti il compito di
riformare gli Statuti comunali del paese, la cui prima redazione risaliva
alla fine del XIII o all'inizio del XIV secolo. Concluso il lavoro di
riforma, gli Statuti vennero quindi approvati dal Senato di Genova il 3
novembre 1599; successive riforme furono attuate nel 1605 e nel 1620. In
precedenza agli Statuti trioresi, che dovevano essere confermati ogni dieci
anni dal Senato genovese, erano stati aggiunti 40 capitoli nel 1540; da
quella data in poi non si parlò più di statuti, bensì di
"capitula", cosicché i primi diventarono la legge e i secondi il regolamento
che si doveva leggere pubblicamente davanti a tutto il popolo due volte
l'anno nei mesi di gennaio e luglio. Gli Statuti rappresentarono la norma
giuridica, etica e sociale a cui si informò tutta la vita triorese dal tempo
della loro prima promulgazione fino all'età napoleonica, quando gli Statuti
vennero abrogati. Queste
leggi regolavano inoltre minuziosamente anche la vita e l'attività economica
del piccolo borgo ligure. Gli Statuti erano parte integrante
dell'organizzazione statale di Genova in qualità di leggi locali e non si
occupavano di gran parte del diritto privato, per cui era competente un
magistrato locale, il pretore, che rinviava al tribunale di Genova le cause
che non avevano trovato soluzione a Triora. La competenza dei magistrati
locali si limitava esclusivamente ai reati espressamente previsti dagli
Statuti. Gli
Statuti si soffermano nella prima parte sulle principali istituzioni
politiche del comune di Triora, ad eccezione del podestà che, pur essendo il
capo formale dell'amministrazione comunale, era un funzionario statale
nominato direttamente da Genova. Gli organi più importanti del comune erano
il Parlamento generale, il Consiglio dei Ventiquattro e il Consiglio degli
Anziani. Gli altri uffici comunali erano costituiti dai sindaci, gli ispettori,
gli stimatori, gli stanzieri, i campari che costituivano il corpo della
polizia rurale, i rasperi, i notai, i ragionieri, gli scrivani pubblici, i
massari e i magazzinieri. Il
Parlamento generale o Consiglio maggiore era la principale assemblea popolare
del comune ed era eletta da un terzo degli abitanti di Triora e delle tre
frazioni di Andagna, Corte e Molini. Le adunanze del Parlamento si tenevano
nella sala comunale detta della "caminata", oppure nella chiesa
della Collegiata, che ne fu la prima sede. Ogni decisione del Parlamento
doveva essere approvata all'unanimità e, per essere valida, dovevano essere
presenti almeno due terzi dei consiglieri, come erano detti i membri del
Parlamento. L'elezione dei consiglieri avveniva a cadenza annuale da parte
dei cosiddetti "grandi elettori", appositamente designati dal
Consiglio minore. I
"grandi elettori", in numero di 14 (8 per Triora e 6 per le
frazioni) erano designati dal Consiglio minore in una pubblica adunanza, che
si teneva la prima domenica di aprile. La domenica successiva questi elettori
prestavano giuramento nelle mani del pretore assicurando di scegliere i
membri del Parlamento generale tra i cittadini con almeno vent'anni che si
fossero particolarmente distinti per doti morali nel rispetto di Dio e del
bene della collettività. Nella settimana seguente i "grandi
elettori" preparavano le liste dei candidati, che, nella terza domenica
di aprile, venivano eletti nominativamente con il sistema dei sassolini
bianchi e neri. Al Parlamento generale spettava l'approvazione della nomina
dei sindaci, degli anziani, dei ragionieri e degli stimatori eletti dal
Consiglio minore. Il Parlamento aveva inoltre il potere di introdurre nuove
tasse e di abrogare quelle in vigore. Il
Consiglio dei Ventiquattro rappresentava invece il vero e proprio governo del
paese, con il potere di ratificare i trattati stipulati con i paesi vicini e
di nominare gli ambasciatori del comune. La prima domenica di maggio, il
Parlamento generale, in seduta comune, eleggeva 7 "grandi
elettori", che, appena nominati, eleggevano in seduta segreta i 24
membri del Consiglio dei Ventiquattro (18 di Triora e 6 dei paesi minori),
che dovevano essere tutti membri del Parlamento generale. Una
volta insediatisi, i 24 consiglieri eleggevano tra di loro un priore, che
aveva il compito di sottoporre all'assemblea le questioni da esaminare. Il
Consiglio, a cui spettava l'elezione di tutti gli ufficiali del comune,
godeva di un appannaggio di 100 lire annue. L'amministrazione
della giustizia era affidata al Consiglio degli Anziani, che erano quattro,
tre di Triora e uno di una delle tre frazioni, a rotazione annuale. Le sedute
del Consiglio, che si tenevano il primo giovedì del mese, erano presiedute
dal pretore, che era la massima carica della magistratura locale. Le sentenze
di condanna erano valide se votate da almeno tre membri del Consiglio, mentre
per quelle di assoluzione ne erano necessarie altrettante. I sindaci erano
invece sei: il sindaco e il vicesindaco di Triora e i tre vicesindaci di Andagna,
Corte e Molini, ed avevano il compito di difendere gli interessi del comune
sui beni demaniali che gli appartenevano da atti giudiziari che li potessero
danneggiare. Erano
inoltre chiamati a difendere i privati da malversazioni e abusi operati da
magistrati o pubblici ufficiali. I due ispettori comunali avevano invece la
funzione, sotto la direzione del pretore, di sorvegliare gli altri dipendenti
del comune per controllarne l'operato con il potere di comminare sanzioni
pecuniarie agli eventuali trasgressori. Gli
stimatori, eletti annualmente in numero di quattro, tre per Triora e uno per
le frazioni, a turno, erano incaricati di varie mansioni, tra cui quella
della manuntezione e dell'ampliamento delle strade e delle mulattiere, della
designazione dei confini delle terre che il comune dava in concessione ai
privati e dell'esecuzione dei pignoramenti. Le funzioni annonarie, di
controllo cioè sui prezzi delle carni, del pane, del vino e dei generi che si
vendevano al dettaglio, erano svolte invece dagli stanzieri. Alle operazioni
di polizia rurale erano destinati i campari, 12 per Triora e 2 per ogni
frazione, eletti dal Consiglio dei Ventiquattro, che avevano il compito di
sorvegliare il territorio comunale diviso in diverse zone, ciascuna assegnata
a un camparo. Ai
rasperi spettava invece il compito di tutelare i boschi e i beni del comune e
di stimare i danni superiori alle 12 lire di cui non si era trovato il
colpevole. I notai, pur non essendo propriamente dei pubblici funzionari,
svolgevano un ruolo importante stilando le convenzioni di matrimonio, le
donazioni e i testamenti privati e pubblici. I ragionieri avevano invece la
funzione di tenere un registro delle pratiche comunali che era conservato
nella cassaforte del comune e in cui erano registrate le entrate e le uscite
del bilancio comunale. Ai magazzini comunali erano infine preposti i
magazzinieri, che erano responsabili dei generi alimentari conservati nei
magazzini. Gli
Statuti contenevano anche delle norme che regolavano la riscossione delle tasse
da parte degli esattori comunali, che dovevano esigere i tributi nei due anni
successivi alla consegna nelle loro mani del registro delle tasse comunali.
Le tasse si dividevano in imposte sugli immobili, imposte indirette come le
gabelle, e tributi che dovevano versare i forestieri che soggiornavano a
Triora. Nel campo del diritto civile, gli Statuti presentavano delle
disposizioni che riguardavano i lanci di pietre e le immissioni di fumo nei
fondi altrui, le distanze tra gli alberi, lo stillicidio, la regolamentazione
e l'utilizzazione delle acque, l'occupazione e l'usucapione dei terreni e i
contratti di lavoro. Per
quanto concerne i beni demaniali, gli Statuti dettavano le norme che
regolavano le concessioni amministrative per coltivare le terre comunali ed
edificarvi determinate costruzioni, la tutela del patrimonio forestale e
boschivo, la manutenzione delle sorgenti e delle fonti pubbliche, l'igiene
pubblica con particolare riferimento alla pulizia ed al riattivo delle vie e
la salvaguardia degli incendi. Il
diritto penale, pure contemplato negli Statuti, consisteva in una specie di
tariffario, cioè un elenco dell'ammontare delle sanzioni pecuniarie che
dovevano pagare coloro che si fossero resi responsabili di un reato, la cui
punizione in termini di multa era direttamente proporzionata alla gravità
dello stesso. Era prevista solamente una responsabilità oggettiva per essere
punibili, cioè era sufficiente l'aver provocato il danno anche se
incoscientemente e involontariamente, la recidiva portava ad un aggravamento
della pena, e le pene erano esclusivamente di natura pecuniaria in rapporto
al danno provocato, mentre, per i delitti più gravi, come gli omicidi,
vigevano le leggi genovesi, che prevedevano anche l'impiccagione, il carcere
o anni di remo sulle galere della Repubblica di Genova. Gli
Statuti contenevano inoltre delle norme che regolamentavano le attività
agricole, la pastorizia, il commercio, la caccia e la pesca. In particolare,
al tradizione mercato pubblico del giorno di San Lorenzo (10 agosto) venne
affiancato un mercato da tenersi nel giorno di Santa Croce a maggio. Negli
Statuti sono inoltre contenute norme che regolavano la tessitura e la vendita
dei panni, l'attività dei mugnai, obbligati a macinare tutto il grano che
veniva loro consegnato, dei fornai, tenuti a cuocere bene il pane, e dei
tavernieri, che non dovevano permettere ai loro avventori di giocare a dadi o
ad altri giochi d'azzardo; vi sono anche prescrizioni sulla vendemmia, il cui
inizio era consentito solo dopo il giorno di San Michele (29 settembre) nella
maggior parte del territorio triorese e dopo il 10 ottobre nel Villaro. Varie
disposizioni regolavano invece la gestione del patrimonio zootecnico locale
con precise indicazioni riguardanti ad esempio le mulattiere attraverso le
quali era concesso passare con il bestiame radunato in mandrie. La caccia non
era invece direttamente regolamentata dagli Statuti, che tuttavia prevedevano
dei premi in denaro per chi avesse ucciso determinati animali selvatici,
mentre precise norme regolavano la disciplina della pesca, che non poteva
essere effettuata con la rete o il barrello e sulla cui regolarità vigilava
un guardiapesca stipendiato dal comune, il "gabellottus". Per
quanto riguarda invece le procedure giudiziarie, gli Statuti di Triora non
facevano alcuna distinzione tra procedura penale e procedura civile,
prevedendo un'unica procedura valevole per qualsiasi questione presentata al
tribunale locale. E'
opportuno a proposito sottolineare come la stragrande maggioranza delle norme
di diritto contenute negli Statuti riguardassero quasi esclusivamente reati
contravvenzionali, mancando del tutto norme che regolassero i delitti più
gravi come l'omicidio, su cui poteva giudicare solo il podestà, osservando
scrupolosamente quanto previsto dalle leggi della Repubblica di Genova. La
competenza del pretore, il magistrato locale, era limitata esclusivamente
alle disposizioni scritte negli Statuti, mentre per tutte le altre questioni
legali era competente il foro di Genova, a cui il pretore triorese
trasmetteva le cause. Mentre
era ancora in corso il lavoro di revisione degli Statuti, nel 1596, la chiesa
di Andagna venne staccata dalla parrocchia madre di Triora. Due anni dopo,
nel 1598, iniziarono dei lavori di ingrandimento della chiesa romanica della
Collegiata. Risale invece al 1605 la cessazione ufficiale del titolo di
podestà del comune di Triora, sostituito con quello di sindaco, anche se nei
secoli precedenti i due titoli erano stati usati contemporaneamente, essendo
in carica nello stesso tempo un sindaco e un podestà, ed anche dopo il 1605 i
due titoli furono utilizzati indifferentemente ancora per qualche tempo. Con
un rescritto pontificio del 26 giugno 1610, la chiesa triorese di San
Francesco, edificata nel 1593, venne aggregata alla basilica di San Giovanni
in Laterano di Roma, ed divenne perciò possibile per i trioresi lucrarvi
l'indulgenza plenaria quotidiana. Nel 1612 il patrizio romano e oriundo
triorese Cesare Velli ottenne da papa Clemente VIII la concessione di
speciali indulgenze per gli iscritti e le iscritte alle due confraternite di
Triora, quella di San Giovanni Battista e quella di San Dalmazzo. Otto
anni più tardi, nel 1620, il canonico triorese Giovanni Velli, addetto alla
collegiata di San Nazàro Maggiore di Milano, lasciò in eredità ai canonici di
Triora la somma di diecimila lire. Il prelato lasciò inoltre delle rendite
per la fondazione nel suo paese natale di una scuola di latino, che,
esistente ancora agli inizi del Novecento, era detta appunto del "lascito
Velli". Tre anni dopo, nel 1623, un'altra chiesa locale si staccò dalla
chiesa madre: la chiesa di Corte venne scissa dalla Collegiata triorese. Nell'estate
del 1624 il duca di Savoia Carlo Emanuele I, con l'appoggio della corte di
Francia, decise di attaccare la Repubblica di Genova per impadronirsi dei
territori della Riviera ligure che erano ancora sotto il dominio genovese. In
particolare, il casus belli fu rappresentato dall'acquisto nel 1622,
da parte del governo genovese, del marchesato di Zuccarello, ambito
fortemente dal duca di Savoia. Nel mese di settembre si tenne un convegno a
Susa, a cui parteciparono il duca Carlo Emanuele I, l'inviato della regina di
Francia Maria de' Medici maresciallo Lesdiguières, l'ambasciatore francese in
Piemonte e l'ambasciatore della Repubblica di Venezia. Nel
corso del convegno venne deciso di muovere una guerra contro la Repubblica di
Genova, al termine della quale i francesi avrebbero avuto la Corsica e lo stato
di Genova fino a Savona, mentre al duca di Savoia sarebbe spettato il
marchesato di Zuccarello e tutte le terre da Ormea e Oneglia fino a Nizza. Fu
inoltre stabilito di attaccare subito lo stato genovese attraverso
l'appennino ligure. Una volta varcato il confine che divideva il genovesato
dal Monferrato, sul cui territorio il duca di Mantova diede libero accesso
all'esercito del duca di Savoia, le truppe franco-piemontesi ottennero subito
delle vittorie militari su quelle genovesi a Voltaggio e a Gavi. Dopo
che, per dissensi ai vertici del comando, i franco-piemontesi ebbero
rinunciato a porre l'assedio a Genova, Carlo Emanuele I decise di indirizzare
gli sforzi delle proprie truppe per la conquista della Riviera di Ponente,
inviandovi settemila fanti, quattrocento cavalli e i figli Vittorio Amedeo e
don Felice di Savoia. Il principe Vittorio Amedeo pose subito l'assedio a
Pieve di Teco, strenuamente difesa dai fanti genovesi guidati da Girolamo
Doria, che però cadde dopo cinque giorni di assedio e venna messa a ferro e
fuoco dai piemontesi. In seguito anche altre città della Riviera, tra cui
Albenga, Alassio, Porto Maurizio, Oneglia, Sanremo e Ventimiglia caddero
senza opporre resistenza di fronte all'urto delle forze piemontesi, a cui
dovettero pagare forti somme di denaro per evitare di essere sottoposte al
sacco. Il
7 agosto 1625 truppe franco-piemontesi con 500 soldati provenienti da
Sospello e comandate dal commendatore francese Dandelot e da don Felice di
Savoia, posero l'assedio a Triora. La popolazione triorese decise allora di
resistere ad oltranza all'assedio opponendo una resistenza eroica e disperata
con l'aiuto anche delle milizie cittadine e di quelle inviate da Genova.
Quando però il 20 agosto i trioresi stavano per arrendersi e consegnare gli
ostaggi al nemico, giunsero a Triora delle truppe ausiliarie provenienti da
Taggia, Porto Maurizio e Sanremo guidate dal capitano G. Vincenzo Lercari,
che costrinsero gli assedianti, tornati alla carica con 4000 soldati agli
ordini di don Felice di Savoia, a togliere l'assedio al paese ed a tornarsene
a Sospello, dove condussero prigionieri 130 ostaggi. Durante
i durissimi giorni dell'assedio, si distinse in modo particolare
nell'incitare la popolazione a resistere agli attacchi del nemico il capitano
genovese Pietro Antonio Cornero, che cadde in combattimento il 12 agosto nel
corso di uno scontro a fuoco tra soldati genovesi e franco-piemontesi nei
primi giorni dell'assedio del paese e venne poi sepolto nei sotterranei della
sacrestia della Collegiata triorese, dove un'iscrizione ne ricorda il
sacrificio. La felice conclusione dell'assedio, avvenuta il 20 agosto, giorno
della festa di San Bernardo di Chiaravalle, indusse i trioresi ad attribuire
all'intercessione del santo il merito principale della vittoria sui
franco-piemontesi. La
comunità di Triora e quella delle tre frazioni, Molini, Andagna e Corte,
decisero allora che da quell'anno in poi il 20 agosto sarebbe stato un giorno
festivo per commemorare l'intervento di San Bernardo a favore di Triora, e
che gli abitanti dei quattro paesi, in quell'occasione, si sarebbero recati
in processione alla chiesa dei Santi Pietro e Marziano di Triora, che sarebbe
stata restaurata in onore di San Bernardo, a cui sarebbe stato dedicato anche
un altare nello stesso edificio religioso. Fallito anche un tentativo di
impadronirsi di Genova attraverso una sollevazione interna, Carlo Emanuele I
stipulò la pace con Genova nel 1641. Nel
maggio 1631, sei anni dopo l'assedio del 1625, il magistrato di Guerra di
Genova inviò a Triora il commissario alle Armi della Repubblica Giovanni
Vincenzo Imperiale con il compito di compiere un'ispezione delle fortezze del
borgo. Imperiale stese quindi un'ampia relazione della sua visita in cui
erano sottolineate la posizione strategica dei forti trioresi e il valore
militare, unito alla tenacia e l'intraprendenza nel lavoro, dei suoi
abitanti. L'anno successivo venne edificato su pilastri altissimi per
portarlo all'altezza della piazza della Collegiata l'oratorio di San Giovanni
Battista. In seguito, con decreto della Repubblica di Genova e relativo atto
di divisione rogato dal commissario Giacomo Negrone il 2 maggio 1654, i paesi
di Molini, Andagna e Corte ottennero la piena autonomia amministrativa da
Triora con facoltà di dotarsi di un proprio consiglio o parlamento, che
sarebbe rimasto in vigore fino alla proclamazione della Repubblica ligure il
14 giugno 1796. Nel
1656 la popolazione triorese venne letteralmente decimata da una grave peste,
che, partita dal porto di Villafranca, dilagò in tutta la Liguria. Dieci anni
dopo, nel 1666, in relazione alla necessità di riformare le leggi
ecclesiastiche locali, il pontefice Alessandro VII emanò una bolla,
intitolata Provisionis canonicatus collegiatae et parochialis loci Triorae,
che trattava degli obblighi e degli onori canonicali del parroco e degli
altri prelati residenti a Triora. Nel 1670, essendo sorte delle contese fra
Triora e Briga in merito all'intricata questione dei confini tra i due
comuni, il re di Francia Luigi XIV inviò a Triora in qualità di legato con il
compito di risolvere la questione confinaria tra i due paesi l'abate Ugo
Servient. Dopo
esser giunto a Triora ed aver attentamente esaminato i termini giuridici
della contesa confinaria, l'abate francese pronunciò un laudo o arbitrato
sulla questione sulla sommità del monte Marta. Il tentativo di mediazione
compiuto dall'abate Servient non risolse però affatto la contesa inosorta tra
i due paesi tanto che l'anno successivo il duca di Savoia Carlo Emanuele II,
prendendo proprio a preteso la situazione permanente di attrito tra Triora e
Briga per la questione dei confini e dei pascoli ai confini dei loro
territori, dichiarò nuovamente guerra alla Repubblica di Genova. Per
tutto il 1672 il territorio di Triora divenne dunque teatro di una serie di
sanguinosi scontri militari tra le truppe piemontesi e quelle genovesi, nel
corso dei quali le campagne circostanti il paese vennero pesantemente
devastate e le masserie sparse sul territorio saccheggiate e messe a ferro e
fuoco. A Triora vennero inoltre stanziati migliaia di soldati genovesi,
cinquecento dei quali ingaggiarono uno scontro armato con le forze piemontesi
sul colle del Pizzo. Dopo due anni di aspro conflitto sulle montagne
prospicienti Triora, il duca di Savoia pervenne infine ad una nuova pace con
Genova che venne stipulata il 18 gennaio 1673. Intorno
al 1700 la popolazione triorese e delle tre frazioni di Molini, Andagna e
Corte raggiunse il culmine della sua consistenza numerica nell'età moderna,
come risulta dal registro parrocchiale dei residenti nati e morti in quel
periodo. Nel 1711 soggiornò a Triora per tenervi una serie di seguitissime
prediche il famoso oratore padre Paolo Segneri iunior. Oltre trent'anni dopo,
nel 1745, durante la guerra di successione austriaca, Triora venne occupata
da un corpo di spedizione spagnolo. In questa occasione il vescovo di Albenga
diede facoltà al parroco di Triora di permettere che i soldati disertori,
rifugiatisi nelle chiese e nei conventi del paese, venissero catturati senza
però che questi fossero sottoposti a processo e che i catturanti incorressero
nella scomunica. Il
presule ingauno diede anche disposizioni affinché i feriti e i cadaveri dei
soldati venissero portati all'infuori di chiese e ospedali in modo che le
autorità militari potessero effettuare il bilancio degli scontri tramite la
ricognizione dei morti e dei feriti. Intorno
al 1755, su iniziativa del gesuita triorese padre Antonio Stella, vennero
trasportate a Triora le ossa di un giovane martire, detto Tusco, provenienti
dalle catacombe di Roma e risalenti al periodo delle grandi persecuzioni
contro di cristiani del III secolo. Le autorità comunali e religiose ne
istituirono quindi la festa solenne, accompagnata da una grande fiera, da
tenersi annualmente la seconda domenica di luglio. Il 28 novembre 1756, dopo
oltre un anno di devastazione dei vigneti locali da parte dei bruchi e dei
campi di grano da uno sciame di cavallette, il Parlamento triorese istituì la
festa e la processione penitenziale detta del Monte per ottenere la
liberazione dalla tremenda pestilenza. La festa del Monte si celebra
ancora oggi la seconda domenica dopo Pasqua. Nel
1770 furono eseguiti grandiosi lavori di rifacimento della chiesa romanica
della Collegiata, che venne così trasformata in una chiesa barocca.
Nell'ambito di questi lavori di ristrutturazione, venne anche data una nuova
forma a cupola all'antico campanile a cuspide della Collegiata, il cui quarto
giro, costituito da quattro colonnine centrali di pietra, fu sostituito dalla
nuova cella campanaria. Intorno al 1773 iniziò ad impartire l'insegnamento
del latino presso la locale scuola retta dai francescani e diretta da don
Bartolomeo Gazzano, il beato Giovanni Lantrua, che si recava nella scuola
francescana, detta del lascito Velli, salendo quotidianamente a Triora dal
sottostante paese natio di Molini. Nel 1781 giunse invece a Triora il vescovo
di Albenga Stefano Giustiniani per effettuarvi la periodica visita pastorale. Dopo
lo scoppio della rivoluzione in Francia, le truppe francesi invasero nel
settembre 1792 la Savoia appartenente al regno di Sardegna, il cui sovrano
Vittorio Amedeo III si era poco prima alleato con l'Austria. Il 29 settembre
le avanguardie dell'esercito francese, comandate dal generale Andrea Massena,
occuparono Nizza e tutta la fascia costiera della contea nizzarda. La buona
linea difensiva predisposta dai piemontesi impedì però all'esercito francese
di penetrare nelle valli Roia e Vesubia. Subito dopo a Parigi la Convenzione
proclamò l'annessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Nel
1793, dopo l'esecuzione di Luigi XVI e l'entrata in guerra della Francia con
tutti gli Stati monarchici d'Europa, l'armata francese in Italia venne
aumentata a ventimila uomini e posta alle dirette dipendenze del generale
Biron, che riuscì a penetrare nell'alta valle Vesubia. Anche alle truppe
piemontesi, in seguito ad una convenzione con l'Austria, vennero aggiunti
rinforzi costituiti da un corpo di soldati autriaci ammontanti a ottomila
unità. Assunse quindi il comando del corpo di spedizione austro-piemontese
sulle Alpi Marittime il generale di Sant'Andrea, mentre al vertice di tutte
le truppe austriache e piemontesi venne nominato il generale austriaco De
Vins, che avrebbe diretto le operazioni belliche da Torino. La
vetta dell'Authion divenne il fulcro della resistenza piemontese, che resse
bene all'impatto delle forze francesi, che vi sferrarono tra il febbraio e il
giugno 1793 quattro furiosi attacchi senza tuttavia riuscire ad
impadronirsene. L'8 giugno 1793 avvenne un durissimo e sanguinoso scontro tra
francesi e piemontesi con ingenti perdite da ambo le parti. Nel settembre
successivo le truppe piemontesi tentarono di forzare lo sbarramento nemico e
penetrare nella contea di Nizza, ma, dopo diversi furibondi attacchi respinti
dai francesi, dovettero rinunciarvi. Dopo
che era fallito anche un analogo tentativo francese di penetrare in Piemonte
attraverso la val Roia, il generale Massena e il giovane Napoleone Bonaparte,
il futuro imperatore dei francesi, suggerirono al comandante generale delle
armate francesi sul fronte italiano Dumerbion un nuovo piano strategico da
attuarsi nella primavera del 1794, una volta terminata la stagione invernale.
Il piano prevedeva l'aggiramento della stretta di Saorgio attraverso i passi
di Collardente e Tanarello dopo aver occupato i pilastri laterali di Marta e
Saccarello e la stretta di Ponte di Nava in val d'Arroscia. Basi di partenza
per queste operazioni avrebbero dovuto essere Triora e il colle di Nava, che
però appartenevano alla Repubblica di Genova da poco dichiaratasi neutrale.
Le difficoltà derivanti dalla neutralità di Genova vennero però superate de
facto con l'occupazione dei suddetti territori da parte delle truppe francesi. Il
6 aprile 1794 le avanguardie dell'esercito francese, guidate dal generale
Arena, varcarono i confini della Repubblica di Genova ed occuparono
Ventimiglia. Una divisione francese, comandata dal generale Massena, per
accerchiare le forze piemontesi che presidiavano monte Grande, entrò in val
Nervia, raggiunse Pigna e Castelfranco, e, attraverso il passo di Langan,
penetrò in valle Argentina. Una seconda divisione, agli ordini del generale
Laharpe, rimase di presidio in val Nervia occupando Dolceacqua, mentre una
terza, guidata dal generale Hammel, prese possesso del passo di Tanarda, tra
monte Grai e Porta Bertrand, prospicienti l'abitato di Triora. Una quarta e
ultima divisione, comandata dal generale Mouret, occupò il 9 aprile la città
di Oneglia, l'unico porto di mare che era rimasto in mano ai piemontesi. Lo
stesso giorno, il generale Massena, che aveva fatto occupare Triora e vi
aveva posto il suo quartier generale, prendendo alloggio nella casa dei
Borelli ubicata nel quartiere Poggio, fece occupare a sua volta dalle truppe
della divisione François monte Trono, sovrastante l'abitato triorese, in modo
da contrapporre un valido schieramento alle postazioni piemontesi
asserragliatesi sulle pendici del monte Pellegrino. Altri reparti
appartenenti alla stessa divisione presero possesso dei monti Mónega e Grande
per poter sorvegliare le mosse delle truppe avversarie schierate nei pressi
del Ponte di Nava e del monte Fronté. Nell'ambito
dell'approntamento dello schieramento antipiemontese, il generale Massena
ordinò anche il trasferimento a Triora dalla val Roia attraverso il passo di
Langan della divisione guidata dal generale Hammel. Effettuati questi
movimenti di truppe, il generale Massena scese da Triora a Oneglia la mattina
del 12 aprile per tenervi un consiglio di guerra con i generali Mouret,
Laharpe, Bonaparte e il tenente colonnello Rusca. Nello stesso giorno Massena
impartì delle direttive alle sue truppe per sferrare un attacco alle
postazioni nemiche nella stretta del Ponte di Nava. Ritornato a Triora,
Massena si portò con le sue truppe al Colle di Nava, dove, insieme alla
divisione del generale Mouret e all'artigliera comandata dal generale
Bonaparte, sferrò un furioso attacco alle posizioni austro-piemontesi, che,
nonostante una valida resistenza da parte del reggimento piemontese
Lombardia, ebbe successo e si concluse con l'occupazione di Ormea il 17
aprile e di Garessio il giorno successivo. Dopo
aver ottenuto questo brillante risultato, il generale Massena rientrò a
Triora, dove predispose il piano dettagliato dei futuri spostamenti delle sue
truppe. La prossima azione prevedeva un'ampia manovra di aggiramento dello
schieramento austro-piemontese allo scopo di penetrare in val Roia scendendo
a nord della stretta di Saorgio e prendendo possesso dei passi di Collardente
e Tanarello e le cime di Marta e Saccarello, tutti situati nell'alta valle
Argentina. Il 25 aprile un primo attacco francese alle postazioni piemontesi
sul monte Pellegrino venne respinto dai reparti comandati dal conte Saint Michel.
Nel corso della giornata del 26 aprile gli zappatori del Genio, appartenenti
al battaglione del tenente colonnello Rusca, eseguirono lavori oltre
l'abitato di Realdo e nei pressi di monte Gerbonte per sgombrare la neve e
riparare le mulattiere. La
mattina del 27 aprile partirono da Triora tre colonne di soldati francesi
agli ordini del generale Hammel, mentre altre due si staccarono dalla regione
retrostante il Saccarello e una terza dalla zona di Saorgio, alla volta
dell'abitato di Loreto. Superata la gola di Loreto, le colonne, tra cui la
principale era guidata dallo stesso Massena e dal tenente colonnello Rusca,
si avviarono verso il passo di Collardente con l'obiettivo di far sloggiare i
piemontesi dalla cima di Marta e penetrare quindi in val Roia. La
colonna comandata dal generale François ingaggiò subito uno scontro armato
con una compagnia del reggimento Piemonte agli ordini del generale Vernata
nei pressi del monte Pellegrino riuscendo però, grazie anche alla
sovrabbondanza delle proprie forze rispetto a quelle piemontesi, a superare
l'ostacolo e a raggiungere il monte Saccarello, dove si trovò di fronte le
truppe piemontesi guidate dal tenente Di Montezemolo, che, dopo aver ricevuto
consistenti rinforzi, riuscirono a respingere i ripetuti attacchi nemici. Poco
dopo i reparti piemontesi agli ordini del cavaliere Vialardi, coadiuvati da
altri reparti mandati in rinforzo e guidati dal colonnello Bellegarde,
ottennero un brillante successo sulle pendici del Saccarello sulla colonna
francese del generale còrso Fiorella, che morì in combattimento insieme a
trecento soldati e quindici ufficiali. Forti di questo successo, i piemontesi
attaccarono anche la colonna del generale François, che venne sgominata e
ricacciata in piena fuga e con grandi perdite su passo della Guardia e monte
Pellegrino. Un altro battaglione francese venne duramente sconfitto nei
pressi del monte Tanarello da un reggimento provinciale di Nizza. Al termine
di questi combattimenti, i piemontesi, comandati dal colonnello Bellegarde, rimanevano
i padroni assoluti della zona prospiciente i monti Fronté, Saccarello e
Tanarello. Sul
fronte di Collardente la colonna francese guidata dal generale Bruslé
ingaggiò un primo cruento scontro con le forze piemontesi e austriache presso
il fortino di Tanarda, che si concluse con forti perdite da parte francese.
Contemporaneamente, la colonna Hammel, con cui marciavano Massena e Rusca,
sferrò un attacco violentissimo alle forze piemontesi presso la ridotta di
Sansòn, che venne occupata dai francesi dopo un durissimo scontro corpo a
corpo, che era costato quattrocento morti ai francesi e centocinquanta ai
piemontesi. Successivamente
le colonne francesi guidate dai generali Hammel e Bruslé tentarono senza
successo di impadronirsi del passo di Collardente, che venne strenuamente
difeso dai reparti piemontesi. Dopo una notte di tregua, l'azione venne
ripresa la mattina del 28 aprile con uno scontro presso le ridotte Linaire e
Cima Piné tra la colonna francese agli ordini di Massena e Hammel e un
battaglione del reggimento austriaco Belgioioso, che, datosi inspiegabilmente
alla fuga, consentì alle forze francesi di dilagare verso la vallata
sottostante. Nelle
prime ore della notte tra il 28 e il 29 aprile, il comandante della fortezza
di Saorgio generale Saint Amour, vistosi minacciato di completo
accerchiamento da parte delle truppe francesi, decise di ritirarsi con il suo
presidio a Tenda nonostante il parere contrario dei componenti il consiglio
di guerra della fortezza. Nel giugno successivo il generale Saint Amour
sarebbe stato poi processato a Torino per aver abbandonato la fortezza di
Saorgio disobbedendo agli ordini del comandante supremo generale Colli e
conseguentemente condannato alla pena capitale e fucilato. La
sera stessa del 29 aprile le truppe del generale Massena scesero nella val
Roia occupando Briga Marittima. L'avanzata verso il colle di Tenda venne poi
ripresa solo il 7 maggio, dopo che le truppe francesi avevano abbandonato il
presidio di Triora e della val Nervia. Le truppe di Massena occuparono quindi
il colle di Tenda l'8 maggio, rimanendovi fino al 20 per riorganizzare le
retrovie e i rifornimenti. L'anno successivo Massena avrebbe poi sconfitto i
piemontesi in varie località liguri arrivando ad occupare Savona. A lui
successe Bonaparte, che, dopo aver battuto i piemontesi a Montenotte e
Millesimo, costrinse il re di Sardegna Vittorio Amedeo III a firmare
l'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), divenuto in seguito trattato di
pace, siglato a Parigi il 15 maggio successivo, in attuazione del quale il re
di Sardegna cedette Nizza e la Savoia alla Francia e accettò l'occupazione di
parte del Piemonte da parte di alcune guarnigioni francesi. Successivamente,
in seguito alla proclamazione della Repubblica Ligure (31 febbraio 1797)
direttamente dipendente dalla Francia, Triora entrò a far parte del nuovo
distretto dell'Argentina, comprendente 13444 abitanti, con Taggia per
capoluogo. Il 20 maggio, per sottolineare la rottura con il vecchio regime,
anche a Triora vennero discalpellati gli stemmi gentilizi dei portali del
paese e delle tombe nelle chiese. Nella piazza della Collegiata venne
piantato l'albero della Libertà, cerimonia che si sarebbe ripetuta anche
negli anni successivi, e si fecero feste pubbliche a cui parteciparono
moltissimi abitanti al canto della "Carmagnola". Il 1° agosto il
Governo provvisorio ligure emanò quindi la nuova costituzione democratica
della Repubblica. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, il popolo triorese,
convocato nella chiesa parrocchiale, deliberò la soppressione dell'aumento
sulla gabella degli erbaggi. Il
14 settembre, con un decreto del governo provvisorio di Triora, venne
stabilito di destinare una parte dei proventi dell'eredità lasciata al comune
dal canonico triorese Giovanni M. Prevosto a favore dell'istruzione pubblica,
mentre un'altra quota sarebbe stata utilizzata per costruire a Triora un
ospedale per i poveri e realizzare un collegamento stradale con Briga.
Nell'ambito poi della generale offensiva contro i membri del clero e i loro
beni immobili, la municipalità triorese costrinse nello stesso 1797 i frati
agostiniani a lasciare il loro convento e la chiesa di Sant'Agostino,
edificata nel 1625, incamerandone i beni che ammontavano ad oltre centomila
lire. Il 1797 venne anche funestato da una grave tragedia, che si consumò
sulle alture della vicina Verdeggia, dove sedici persone morirono sepolte
sotto una valanga di neve staccatasi dalle pendici del monte Saccarello. Il
26 febbraio 1798 venne effettuato un censimento generale della popolazione
del comune di Triora, che risultò ammontante a 9133 unità, di cui 2615 nel
capoluogo, 1779 a Badalucco e 1155 a Castelfranco. Il 9 giugno la Liguria
occidentale venne invasa dalle truppe piemontesi comandate dal conte
Desgeney. A Triora si apprestarono le prime misure difensive con la
trasformazione dell'oratorio di San Giovanni Battista in un luogo di
concentramento delle truppe. Venne anche costituito un Comitato militare,
presieduto dall'avvocato Luca Maria Capponi e dal cittadino Carabalone, che
coordinò le operazioni militari dei volontari trioresi che si erano uniti ai
soldati regolari dell'esercito genovese. Dopo poco tempo però Triora e il
resto della Liguria occidentale dovettero capitolare e furono occupate
dall'esercito piemontese. Nel
1802 Triora fu incorporata nella Repubblica italiana, mentre due anni dopo
passò sotto il Regno d'Italia. Nel 1802 si tenne anche un censimento della
popolazione residente a Triora, da cui risultò che il comune era abitato da
5828 persone con un decremento dovuto alle numerose epidemie e carestie che
avevano interessato la popolazione ligure alla fine del XVIII secolo. L'11
febbraio 1803, con decreto della Repubblica Ligure, vennero abrogati gli
Statuti comunali trioresi insieme a quelli di tutti gli altri comuni della
Liguria, anche se tali speciali leggi comunali rimasero formalmente in vigore
a Triora ancora per qualche anno, almeno fino al 1819. Pochi
mesi dopo, il 2 giugno 1803, il governo della Repubblica Ligure emanò una
legge in virtù della quale Triora veniva eretta a capoluogo dell'ottavo
cantone della sesta giurisdizione, una delle sei divisioni amministrative in
cui fu ripartito il territorio ligure, con residenza della municipalità e del
giudice cantonale di prima classe. Il 2 dicembre 1804 il Senato di Genova
supplicò l'imperatore Napoleone Bonaparte di annettere la Liguria all'Impero
francese. La richiesta venne accolta ufficialmente il 5 maggio 1805. Con
decreto infine del 17 pratile dell'anno XIII (5 giugno 1805), la Liguria
venne riunita alla Francia e divisa in dipartimenti. Triora entrò a far parte
dell'85° dipartimento delle Alpi Marittime, che aveva come capoluogo Nizza,
in qualità di comune del secondo circondario di Sanremo. Nel
1806, in ottemperanza a quanto disposto dal governo napoleonico a Saint-Cloud
il 2 giugno 1804 sull'obbligo di seppellire i morti nei cimiteri anziché nei
sotterranei delle chiese, anche a Triora si iniziò a seppellire i morti fuori
dalle chiese e precisamente in un tratto di terreno, detto Trunchettu,
adiacente all'antica chiesa parrocchiale di San Pietro. Tale zona era stata
riservata fino al XIV secolo a luogo per le esecuzioni capitali, ossia le
impiccagioni, che vennero poi trasferite nel Fortino, detto negli Statuti
anche "carmo furcarum", cioè sommità delle forche. Prima del
cimitero del Trunchettu, i defunti trioresi venivano sepolti nei
sotterranei della chiesa della Collegiata, di San Francesco e di San Pietro.
Il 25 marzo 1810 un decreto imperiale del governo napoleonico conferì a
Triora il titolo di "Ville" (Città) come riconoscimento della
particolare importanza politica e economica che il paese ligure aveva
raggiunto sotto la dominazione francese. Dopo
l'abdicazione di Napoleone nell'aprile 1814 e il generale sfaldamento del suo
vasto impero, a Genova venne ricostituita la Repubblica Ligure. Nel mese di
maggio il sindaco di Triora, allora detto alla francese maire, Luca
Capponi si recò a Genova, insieme ad una delegazione di altri sindaci della
Riviera di Ponente, per esprimere al governatore inglese Lord Bentinck le sue
felicitazioni per la restaurazione della Repubblica Ligure. La Repubblica era
però destinata a breve vita in quanto i plenipotenziari europei riuniti a
Vienna in congresso stabilirono che la Liguria, corrispondente al Ducato di
Genova, sarebbe passata sotto la sovranità del Regno di Sardegna. L'annessione
del Ducato di Genova al Regno sardo venne ratificata con un trattato
approvato a Vienna il 9 giugno 1815. Nello stesso anno il territorio del
Regno di Sardegna fu diviso in province: Triora con tutto la zona compresa
tra il fiume Varo e Oneglia sulla costa e fino a Tenda nell'entroterra venne
inclusa nella provincia di Nizza, a cui sarebbe rimasta legata
amministrativamente fino al 1860, mentre, per le riscossioni tributarie,
venne messa alle dipendenze di Savona, capoluogo del dipartimento
finanziario, a decorrere dal 18 aprile del 1815.
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Università degli Studi di Genova |
Nel
1867 il giovane Thomas Hanbury, che risiedeva nella Costa Azzurra, rimase
affascinato dal promontorio verdeggianate che, a La Mortola. si protende nel
mare in un rapido declivio. Egli decise di acquistano e progettò di farne un
giardino di acclimatazione introducendovi piante esotiche provenienti dalle
più lontane regioni del mondo. il suo acquisto che man mano si estese fino a
un’area di 18 ettari, prevede va una zona coltivata e una lasciata a
vegetazione naturale di tipo mediterraneo. Aiutato dal fratello Daniel,
studioso di piante medicinali, da insigni botanici tedeschi e inglesi da
valenti giardinieri residenti a La Mortola stessa e da altri chiamati dal
nord Europa, egli portò avanti il progetto che aveva stimolato la sua
iniziativa. Ristrutturata la vecchia villa dei Marchesi Orengo, tracciata una
fitta rete di piccole strade e scalinate, il giardino via via si delineava in
forme architettoniche originali e in spazi a vegetazione esotica. Sir Thomas
divenne il "Mecenate" del La Mortola dove fece costruire anche una
scuola; arricchì di fontane i villaggi adiacenti, volle donare all’Università
di Genova una villa che, tuttora, rappresenta l’Istituto Botanico della
Facoltà di Scienze. Alla morte di Thomas Hanbury, nel 1907, le sue ceneri
vennero deposte in un mausoleo che si trova nel giardino. |
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