Giovedì, Venerdì, Sabato e Domenica 7-8-9-10/12

ANDORA – CONTINUA LA SCOPERTA
DELL’ENTROTERRA LIGURE

Ileana ci ospita nella sua bellissima casa, con 8 posti letto.

Programma di massima

Mezzi

Auto, circa 2.20 ore da Mlano

Treno, diverse soluzioni, dalle 3.30 alle 4.30 ore

Giovedì -Partenza da Milano in macchina verso le 8.30

      In treno, da definirsi

Domenica

Verso le 14.30 si incomincia il rientro

 

Spesa prevista

Trasferimento

Macchina circa 40 euro solo andata per macchina (in 4 persone circa 10 euro a testa)

Treno solo andata 20 euro a testa (IC), 12.4 IR

Pernottamento, ospiti di Ileana

3 cene autocucinate (almeno una grigliata di pesce)+ 3 spaghettate a mezzogiorno + colazione alla mattina (cuciniamo noi) circa 30 euro a testa

Pranzo di domenica, a seconda di come lo si vuo,fare

 

COME VEDETE SI TRATTA DI UN GIRO TRA AMICI CON SUDDIVISIONE DELLE SPESE E SENZA QUOTE DI PARTECIPAZIONE

Programma di massima

Arrivo ad Andora dalla tarda mattina. Ci si organizza per il dormire e si passa la giornata con una memoria di Thor Heyerdahl, il noto esploratore. Infatti ha acquistato un piccolo villaggio Colla Micheri, che sta dietro la casa di Ileana. Andremo a visitare questo vecchio villaggio ligure ristrutturato da Heyerdahl e la torre presso la quale riposano le sue ceneri. Quindi scenderemo a piedi a Laigueglia e visitare questa antica cittadina con pianta araba.

Il giorno dopo, ci avvieremo con calma ad Alassio, dove, chi non l’ha già fatta, potrà farsi la via Julia, un tratto dell’antica strada romana che collega Alassio con Alberga. Finendo poi con il gironzolare per il centro storico di Alberga.  In alternativa o complemento ad Alassio, dopo aver visitato il muretto, proseguiremo per Castelvecchio di Rocca Barbena, impressionante borgo fortificato con una lunga storia.

Passeremo 3 giornata a inventarci i più begli scorci ed aspetti che l’entroterra ligura ci può permettere, di seguito riportiamo alcune delle scelte più interessanti.

Nel pomeriggio/sera del 10/12 riprenderemo la strada per Milano.

Il nostro piano è tutto in fieri, sono benvenuti suggerimenti o critiche. Nei prossimi giorni sul sito la solita documentazione.

Spesa prevista, è ancora da definire, a parte le spese di viaggio (da dividersi tra i partecipanti), pensiamo di stare nei 30 euro a testa per 3 cene, 4 prime colazioni e 3 pranzi. Una grigliata (base pesce) della sera è sicura,  con un piatto di spaghetti o simili per giovedì, venerdì e sabato a mezzogiorno. Per domenica, tutto da inventare.

Carlo, Grazia ed Ileana consigliano

- Dolceacqua – Castello dei doria – Ponte romano – borgo antico medievale in pietra lavagna arroccato sulla collina

- Apricale – Castello e borgo medioevale

- Grotte di Toirano

- Triora – il paese delle streghe, non possiamo garantire il rogo, ma portate la legna, non si sa mai, a nord di Sanremo

- Sealza – vicino a Ventimiglia: valle coltivata a mimose

- Albissola – Laboratorio e mostre dei ceramisti:

- Cervo S.Bartolomeo conosciuta in tutto il mondo per il teatro (è la piazzetta davanti alla chiesa a picco sul mare e gli spettatori siedono sui gradini della chiesa) dove tutti gli anni si svolge una serie di concerti di musica da camera.

- Museo dell'Olio Carli, al porto di Imperia

- Mercatino del pesce sulle banchine del porto

- Giardini Hanbury, sul mare, a metà strada tra Ventimiglia e Mentone. Il
più grande orto botanico d'Italia, fondato nell'800 da un inglese e
attualmente gestio dall'Università di Genova. Piante di tutto il mondo,
adesso in gran parte fiorite.
 - Castello di roccabarbena

 - Principato di Seborga, poco prima di Sanremo, su una collina a 6 Km
dall' Aurelia. Paesino medievale in pietra dove un viticoltore locale ha
avuto l'idea di proclamarsi principe, stampare francobolli, svolgere
cerimonie in costume e restaurare  le vecchie case. Credo che potremmo farci nominare tutti cavalieri secondo la procedura classica: spadone, giuramenti ecc. ecc.

E CON TANTE POSSIBILITA’ DI SCELTA, COMPRESA QUELLA DI ANDARE IN SPIAGGIA A PRENDERE IL SOLE (se ci sarà), DECIDEREMO SL POSTO CHE COSA ANDARE A VEDERE

 

Riferimento  Ileana: ileanagiopp@libero.it

Oppure a Guido Platania

Tel 334/6975885  - gp@helponline.it

 

 

 

 

Thor Heyerdahl

L'esploratore norvegese Thor Heyerdahl per dimostrare una sua teoria, nel 1947, percorse oltre 4000 miglia nell'Oceano Pacifico dal Perù fino alla Polinesia, su una zattera di legno di balsa in compagnia di cinque compagni di viaggio.

Colla Micheri: Thor Heyerdahl ristrutturò l'antico borgo e lo scelse come sua dimora sino al giorno della sua morte.

Kon-Tiki

La teoria: dimostrare che gli Indii furono in grado di attraversare il Pacifico con le loro zattere, navigando dal Perù alla Polinesia tra il 500 d.c. e il 1100.

La leggenda Inca: Kon-Tiki fu il capo religioso e Re degli uomini di carnagione bianca che lasciarono i grossi ruderi del lago Titicaca. In un combattimento su un'isola del Lago, i sudditi di Kon-Tiki furono uccisi. Solo Kon-Tiki ed i suoi più stretti seguaci riuscirono a fuggire verso la costa e, attraverso il mare, scomparvero verso ponente.

La leggenda Polinesiana raccontata dagli anziani: Tiki era allo stesso tempo dio e capo. Egli guidò i loro antenati sulle isole della Polinesia. Prima abitavano in un paese lontano al di là dal mare.

Altri elementi: furono diversi gli elementi che convinsero Thor Heyerdahl che nel 500 d.c. una civiltà proveniente dal Perù arrivò fino in Polinesia.
Questi elementi per la comunità scientifica, tuttavia, erano di secondaria importanza, rispetto al fatto che si riteneva impossibile che le zattere utilizzate da tale civiltà fossero in grado di resistere alla navigazione nell'Oceano.
Thor Heyerdahl era così sicuro della sua teoria, che decise di costruire una zattera di legno di balsa, per affrontare l'Oceano su di un'imbarcazione come quelle utilizzate da quell'antica civiltà.
Ci riuscì. Approdò, dopo quattro mesi di navigazione, sullo scoglio di Raroia, il 7 agosto 1947.

Thor Heyerdahl raccontò le vicende della spedizione in un libro: Kon-Tiki. 4000 miglia su una zattera attraverso il Pacifico.

ANDORA

La storia

Ancora una volta è la tradizione antica di secoli a suggerire l’origine di un insediamento. Nel caso di Andora sarebbero stati addirittura i Focesi, popolo greco originario della Focide, a fondare Andora nel 753 a.C. usandola come approdo per il commercio del sale che estraevano dai giacimenti della vicina Corsica. Successivamente, giunsero i Romani dei quali ancora oggi ammiriamo le monumentali testimonianze; ne è un esempio il tracciato della via Julia Augusta che vicino al castello attraversa il torrente Merula, con un ponte di ben dieci arcate. I secoli successivi alla caduta dell’Impero romano vedono l’avvicendarsi di Longobardi, Vandali e Visigoti il cui dominio terminerà nel 773 con l’arrivo di Carlo Magno. La leggenda narra che anche qui, con il suo destriero, giunse Aleramo, capostipite di quegli Alerami che dominarono vasti possedimenti nella regione ed oltre. Si succederanno poi i Del Vasto, i Del Carretto e i Clavesana i quali fecero costruire nel 1170 l’attuale castello che sovrasta la valle e il torrente Merula. Il maniero nel 1237 passò ai Doria e infine fu ceduto alla Repubblica di Genova nel 1252. Vicino al castello sorgeva il nucleo originario di Andora, circondato da mura, che nel 1321 fu centro di una violenta battaglia tra guelfi e ghibellini. Si dice poi che il borgo fu abbandonato a causa di due terribili pestilenze: la prima nel 1493 e la seconda nel 1524.

 

Da vedere e da… ascoltare

Andora è ricca di storia e testimonianze del passato. Ecco una breve carrellata: chiesa dei Santi Giacomo e Filippo [detta “a Gesa de Castellu” (XIII secolo) con tre navate e tre absidi e la bella arcata del portale a tutto sesto], Porta-Torre Campanaria [risalente al XIII secolo, conserva internamente un affresco del XV secolo], il Ponte Romano [lungo 100 m. e largo 2 m., con la struttura a “schiena d’asino” a dieci arcate], l’Oratorio di S. Nicolò [risalente al 1000 o prima che insieme a quello di S. Caterina dei Disciplinanti vide le antiche processioni delle Confraternite Religiose innalzare la notte salmi e preghiere alla luce tremula delle lanterne], il Torrione Saraceno [del XVI secolo], la chiesa della Santissima Trinità [in frazione Rollo, risalente al 1600, ma edificata sull’antico oratorio del 1300 fondato dalle popolazioni provenienti da Briga e da Tenda scampate alla peste], la chiesa dei santi Giacomo e Filippo dove nelle belle sere d’estate potrete assistere ai numerosi concerti organizzati per la rassegna dell’Estate Musicale di Andora.

 

Antiche leggende

È la chiesa di S. Giovanni con l’ingresso posto stranamente a monte, contrariamente all’ordine prestabilito nelle costruzioni religiose, che ci ricorda un’antica leggenda. Si dice che proprio nella chiese venne assassinato un nunzio apoastolico inviato dallo stesso papa; sarebbe così giustificato secondo una nota tradizione, lo spostamento della porta d’ingresso per dimenticare il misfatto. Il Papa però decretò anche la scomunica e questa scatenò un’invasione di formiche che non risparmiò nulla, neppure i neonati nelle culle. Poi avvenne il miracolo: da un pesco maturò un solo frutto che venne portato al Pontefice in segno di pace. La scomunica fu così ritirata.

 

Storie saracene

La storia narra della bella Andalora, ragazza del posto, che era promessa sposa a tale Stefanello. Un giorno arrivarono i Saraceni e la ragazza fu rapita dal principe Al Kadir e portata lontano. Stefanello non si arrese, li inseguì fino a raggiungerli; i due amanti si ricongiunsero, ma durante la fuga vennero però scoperti. A quel punto Andalora, vedendosi perduta, chiese a Stefanello di ucciderla pur di sfuggire ai suoi rapitori. Il ragazzo la pugnalò e con lei si gettò in mare morendo annegato con la sua amata. Negli anni successivi si dice che le anime dei due infelici vagassero per molto tempo fino a quando gli abitanti dei due villaggi diedero ai paesi i nomi di Andalora e Stefanello, mutati poi in Andora e Stellanello.

 

Sabba ad Andora

Le volete vedere? Se sì, allora dovrete andare presso U cianelun de basure che non è che un prato tra Andora e Stellanello dove si dice che le streghe si radunino la notte del venerdì.

 

Il serpente custode

È una leggenda tramandata oralmente sino ai giorni nostri quella secondo la quale una serpe con un ornamento d’oro sul capo sarebbe custode delle pinete di Turia vicino ad Andora. Reminiscenza forse di qualche divinità pagana?

 

Proverbi

“Se piove per la Candelòra, de l’inverno sémmo fòra”
(se piove per la candelora, dall’inverno siamo fuori).
“Santa Lesia, a notte cui longa che n ghe sia”
(Santa Lucia la notte più lunga che ci sia)

 


COLLA MICHERI

 

Thor Heyerdahl, la leggenda

Un paese piccolo e ridente, a ridosso dei primi colli tra Andora e Laigueglia; era la fine degli anni ’50 quando qui, si stabilì uno degli uomini “leggenda” del secolo scorso. Thor Heyerdhal, esploratore etnologo norvegese divenuto famoso per l’impresa del 1947, quando attraversò il Pacifico a bordo di Kon-Tiki, una zattera di legno. Da allora molti cittadini provenienti dai paesi del nord, sulle orme del proprio concittadino, si stabilirono nel paese ligure. Con l’impresa del 1947 volle dimostrare che l’Isola di Pasqua era popolata da sudamericani; gli occorsero 101 giorni di navigazione insieme ad un equipaggio di cinque uomini per raggiungere l’atollo di Raroa. Da questo viaggio trassero un film, premiato con un Oscar, e un libro che ebbe popolarità in tutto il mondo. Nel 1969 e nel 1970 si cimentò in altre due spedizioni per l’occasione con una barca di papiro chiamata “Ra”; l’intenzione era quella di attraversare l’Oceano Atlantico partendo dal Marocco. Il primo tentativo fallì, ma il secondo, sotto la bandiera dell’ONU, fu un successo. Nei suoi progetti c’era posto ancora per un ultima esplorazione: la ricerca di Asgaard, la mitica terra degli Asi, secondo le sue teorie, sepolta ad Azov, vicino al Mar Nero. Nato a Larvik nel 1915 si è spento a 87 anni dopo essere stato dimesso il 18 aprile 2002 dall’ospedale S. Corona di Pietra Ligure.

 

Aneddoto

Visitando Colla Micheri, nucleo di origine romana, avrete l’opportunità di conoscere una pagina di storia “internazionale”. Una lapide posta sulla porta della chiesa di S. Sebastiano ricorda Papa Pio VII che proprio qui sostò al ritorno dalla sua prigionia a Fontainebleau per opera di Napoleone (1814).

ANDORA - COLLA MICHERI

 

Durata:  3 - 4 ore.

Periodo consigliato: tutto l’anno.

Difficoltà:  molto facile.

Emergenze Naturalistiche, Storiche e Architettoniche:            vegetazione mediterranea, Colla Micheri, pineta di Pino d’ Aleppo, mulino a vento, panorama sull’intero golfo ligure, ruderi della chiesa medioevale di San Damiano, possibilità di osservare numerose specie di uccelli.

Descrizione dell’itinerario: Il percorso inizia in ambiente di macchia mediterranea nella quale vegetano l’Alaterno,  il  Pino d’Aleppo,  varie specie di ginestre, ed altre piante caratteristiche delle nostre zone costiere. Proseguendo si attraversa un piccolo bosco di roverelle e pini d’aleppo, giungendo ad una strada che porta prima in un vecchio uliveto, e dopo all’antico borgo medioevale di Colla Micheri (163 m. s.l.m.), posto in  stupenda posizione panoramica. Da Colla Micheri si giunge ad una delle più ampie e caratteristiche pinete di Pino d’Aleppo della nostra regione, seguendo il crinale si abbandona questa formazione vegetale, raggiungendo prima un antico mulino a vento, e successivamente un eccezionale punto panoramico aperto sull’intero golfo ligure. L’ultima parte del nostro itinerario conduce ai resti della chiesa di San Damiano. Il percorso “ad anello” consente di ammirare nuovi ambienti, sempre dominati dalla vegetazione mediterranea e popolati da una numerosa avifauna.

LAIGUEGLIA

Note storiche

È una classica cittadine ligure, oggi meta balneare, ma di antiche origini marinare; è nei budelli che si respira maggiormente quest’atmosfera in cui tradizione e sviluppo hanno trovato un buon compromesso; il turismo ha saputo dare un futuro florido alla comunità sostituendo attività oggi completamente scomparse quali la pesca del corallo, il commercio marittimo e l’artigianato. A testimoniare il trascorso delle nobili famiglie di Laigueglia e della loro ricchezza ci sono la parrocchiale di S. Matteo, risalente al settecento, e gli antichi palazzi. Sappiamo che nel medioevo fu dapprima feudo dei Vescovi di Albenga e che nel 1162 per volere del Barbarossa passò ad Anselmo de Quadraginta.

Le origini

Le origini di Laigueglia risalgono al periodo romano quando si chiamava Aquilia, l’abitato sorgeva nei pressi della già citata via Julia Augusta che da Laigueglia abbandonava il percorso sul mare per inerpicarsi sino a Colla Micheri. Nei secoli XII e XIII fu dominio di Genova e a quel periodo risalgono le massicce migrazioni di Catalani che si stabilirono sulla costa per dedicarsi alla pesca del corallo vicino a Capo Mele. I Catalani diedero origine a nuclei di famiglie che tuttora discendono dal ceppo; a Capo Mele, testimone di quel lontano periodo, è rimasta la Cappella della Madonna delle Penne.

Curiosità

Anche a Laigueglia le incursioni saracene non mancarono; a testimonianza delle difese di un tempo è rimasto il “Bastione di Levante” o “ del cavallo”, uno dei tre torrioni cinquecenteschi che stavano a guardia del borgo. Nel tempo questa fortificazione, costruita sulla spiaggia, fu adibita sia a carcere che a lazzaretto per i marinai con malattie infettive. Il torrione del Giunchetto, sovrastante Capo Mele, fu distrutto invece da Napoleone così come fu abbattuta la “torre di Mezzo” o “Castello” su cui sorse il Palazzo Rosso. Il cannone di bronzo di cui era dotata venne fuso per creare la campana della parrocchiale di S. Matteo.

DOLCEACQUA

Dolceacqua è facilmente raggiungibile: giungendo con l'autostrada A10 Genova-Ventimiglia, è consigliabile uscire ai caselli di Ventimiglia o Bordighera, dai quali s'imboccherà la S.S. Aurelia, e quindi la strada provinciale della Val Nervia. Ventimiglia dista circa 8 km ed è sede di stazione ferroviaria internazionale; da qui un servizio di corriere consente di raggiungere agevolmente Dolceacqua. L'aeroporto internazionale più vicino è quello di Nizza, il quale dista 50 km.
Dolceacqua è un borgo medievale della Val Nervia, distribuito lungo il torrente omonimo. La parte più antica, dominata dal castello dei Doria e chiamata Terra, è posta ai piedi del monte Rebuffao; la parte più moderna, il Borgo, si allunga sulla riva opposta, ai lati della strada che risale la valle.
Le origini
II nome di Dolceacqua deriva quasi certamente dalla presenza di un fondo rustico di età romana di certo Dulcius trasformatosi in seguito in Dulciàca, Dusàiga (l’attuale nome dialettale)e Dulcisaqua. Un’altra interpretazione accredita l’origine del paese dovuta ai Celti, che l’avrebbero chiamato Dussaga, modificato poi in Dulsàga e infine in Dolceacqua.
Le più remote testimonianze del popolamento della zona sono rappresentate dai castellari dell’età del Ferro, rozze fortificazioni in pietra a secco ad anelli murari concentrici che occupavano le alture di cima d’Aurin, cima Tramontina, del monte Abellio lungo lo spartiacque fra le valli Nervia e Roia e di monte Morgi e della Torre dell’Alpicella sul versante opposto.
Le tracce archeologiche raccolte confermano che questi capisaldi di difesa del territorio furono presidiati dagli Intemeli daI V secolo avanti Cristo al IV secolo dopo Cristo in piena età romana, a protezione di villaggi, pascoli e campi.
Il primo documento che cita Dolceacqua risale al 1151; infatti fu proprio nel XII secolo che i conti di Ventimiglia fecero costruire il primo nucleo del castello alla sommità dello sperone roccioso che domina strategicamente la prima strettoia e la biforcazione della valle verso Rocchetta Nervina e la val Roia da un lato e la media e alta val Nervia dall’altro lato, controllandone gli accessi.
Nel corso dei secoli seguenti ai piedi del castello, acquistato nel 1270 dal capitano del popolo genovese Oberto Doria, il vincitore dei Pisani alla Meloria, e ampliato dai suoi successori, venne sviluppandosi l’abitato della Terra (Téra nel dialetto locale), seguendo le linee di livello a gironi concentrici attorno alla rocca e collegati fra loro da ripide rampe. L’acqua del Nervia fu portata ad alimentare le fontane e irrigare gli orti.
Il castello
Il castello dei Doria subì diverse trasformazioni. Il primitivo impianto feudale, difeso alla fine del Duecento dalla torre circolare, venne ingrandito e incluso nel XIV secolo in una cinta muraria più ampia; in età rinascimentale il castrum diventò una grandiosa residenza signorile fortificata, con nuovi locali riccamente affrescati e arredati distribuiti attorno al cortile centrale, completata da imponenti apparati difensivi.
 Dopo aver resistito a numerosi assedi, non poté tuttavia opporsi alle artiglierie pesanti franco-ispane, le quali lo distrussero parzialmente il 27 luglio 1744 durante un episodio della guerra di successione austriaca. Non più abitato dalla famiglia dei marchesi Doria, che si trasferì nel cinquecentesco palazzo adiacente la chiesa parrocchiale, subì gli ultimi oltraggi dal terremoto del 1887. Il castello, passato al Comune di Dolceacqua, è in fase di restauro e sarà destinato a manifestazioni e funzioni culturali.
Il quartiere della Terra, esaurito lo spazio disponibile per la sua espansione, crebbe in altezza mediante la sopraelevazione delle case, che raggiunsero anche i sei piani; oggi conserva intatta la sua atmosfera medievale e presenta angoli di grande suggestione, in cui il tempo sembra essersi fermato. La storia di Dolceacqua s’identifica con le vicende del suo castello e della signoria dei Doria che vanta tra i molti personaggi Caracosa, madre dell’ammiraglio Andrea Doria; la dinastia, entrata sotto la protezione sabauda, dal 1652 fu a capo del Marchesato di Dolceacqua.
La Terra e il Borgo
Nella metà del Quattrocento la crescita dell’abitato, che aveva fatto del percorso di via Castello il principale asse viario urbano, portava alla creazione del nuovo quartiere del Borgo, al di là del torrente Nervia; i due nuclei vennero collegati da un elegante ponte a schiena d’asino a un solo arco di 33 metri di luce. Il ponte, che Claude Monet dipinse nel 1884, definendolo “un gioiello di leggerezza”, insieme al grappolo di case della Terra e al sovrastante castello dei Doria rappresenta una delle più pittoresche e celebri visioni dell’entroterra ligure.
Ai piedi della Terra, la parrocchiale di Sant’Antonio Abate, di origini quattrocentesche, ingloba una torre angolare quadrata delle antiche mura, divenuta la base del campanile. L’edificio sacro venne rifatto in forme barocche ed è ornato da ricche decorazioni interne; custodisce il prezioso e delicato polittico di Santa Devota, opera del 1515 di Ludovico Brea, caposcuola della corrente pittorica ligure-nizzarda.
 All’ingresso del paese, accanto al cimitero, la chiesa di San Giorgio venne costruita nell’XI secolo in forme romaniche, che si possono riconoscere nella facciata e nella parte inferiore del campanile, ma fu trasformata in epoca gotica e barocca. La cripta, divenuta sepolcro della famiglia dei marchesi, accoglie tuttora le tombe di Stefano Doria del 1580 e di Giulio Doria del 1608, raffigurati sulle lastre di copertura nelle armature d’epoca. Il soffitto ligneo conserva rare travature dipinte del Quattrocento.
 Le rovine del convento dei padri agostiniani, a mezzogiorno dell’abitato, in posizione panoramica, ricordano che questo centro religioso nel Cinquecento fu dipendenza dell’abbazia piemontese della Novalesa presso Susa, prima tappa di un percorso storico che collegava le sponde del Mar Ligure ai valichi alpini.
II santuario dell’Addolorata, a levante del paese in regione Morghe, è una costruzione del 1890, ogni anno meta di un devoto pellegrinaggio, occasione di incontri conviviali che si ripetono per alcuni giorni, secondo una consolidata tradizione locale. Numerose cappelle campestri sono disseminate sulle colline circostanti, ricoperte da vigne e uliveti secolari; tra queste, la cappella di San Bernardo conserva alcuni affreschi del XV secolo del pittore
Emanuele Maccari di Pigna. La cappella di San Martino, presso la confluenza del torrente Barbaira con il Nervia, si distingue per l’insolita copertura a cupola; fra le cappelle più antiche si ricordano inoltre quelle di San Rocco e di San Cristoforo.
 Nel quartiere del Borgo l’oratorio di San Sebastiano in cui si può ammirare una pregevole scultura lignea attribuita al Maragliano, è sede di una Confraternita che celebra il martirio del Santo la domenica più vicina al 20 gennaio mediante una solenne processione, con trasporto di un grande albero d’alloro ornato di ostie variopinte, simbolo dell’abbondanza dei raccolti agricoli, evidente retaggio di una cerimonia pagana legata al ciclo della morte e della resurrezione della vegetazione.
 Ma Dolceacqua è fedele custode di altre tradizioni, prima fra tutte la Festa della michetta, un dolce tipico locale, che si svolge il 16 agosto a ricordo della fine dell’infame jus primae noctis preteso dal tiranno Imperiale Doria nei confronti delle giovani spose e cancellato insieme ad altri soprusi nel 1364 da una sollevazione popolare. Da allora il semplice dolce, una specie di brioche dalla forma caratteristica, viene chiesto dai giovani alle ragazze, che lo distribuiscono in segno di simpatia nel corso di un’allegra scorribanda musicale fra i carugi del paese. A Natale, sulle due piazze principali del Borgo e della Terra, vengono accesi grandi falò quale simbolo di partecipazione alla festa più intima dell’anno.
Le colline terrazzate a fasce, sostenute da muri in pietra a secco, testimoniano delle secolari fatiche e della tenacia dei contadini liguri per strappare il poco terreno da coltivare.
La fama del paese è legata anche alla produzione del Rossese di Dolceacqua, un vino rosso rubino a denominazione d’origine controllata dal sapore morbido, aromatico e dolce, la cui gradazione minima è di 12,5 gradi (quando raggiunge i 13 gradi è chiamato Superiore). Il Rossese è ottenuto da un vitigno unico ed è prodotto in un numero limitato di bottiglie.
 I prodotti della terra
Dagli argentei uliveti vengono raccolte le olive col sistema della bacchiatura o ramatura: gli uomini, saliti sugli alberi, percuotono ripetutamente i rami carichi di frutti con una lunga pertica. Successivamente nei frantoi avviene la frangitura nei gombi di pietra, con riduzione delle olive in pasta, distribuita poi negli sportini sistemati in strati e sottoposti a spremitura; il risultato finale è l’olio extra vergine di oliva, un prodotto locale eccellente, molto ricercato.
Attorno all’abitato coltivazioni floricole in pien’aria, consentite dalla mitezza del clima, rivelano un’altra attività economica del posto, con prevalente produzione di mimosa, ginestra, verde ornamentale, raccolti giornalmente e avviati al mercato di Sanremo.
Dolceacqua non è soltanto il principale borgo medievale della val Nervia, ricco di monumenti, opere d’arte, di storia e tradizioni. È un paese in cui la vita scorre serena secondo i ritmi e le abitudini di una civiltà contadina partecipe al mondo moderno, ma che non ha dimenticato la propria identità culturale né rinnegato i valori della dimensione umana  dell’esistenza. Qui l’uomo e i suoi sentimenti rimangono i protagonisti di un mondo autentico e operoso, ancora distante dalle ansie e dalle frenesie del nostro tempo. È questo, forse, il segreto di Dolceacqua, del suo indimenticabile fascino e della sua sincera ospitalità.


Le Manifestazioni

Dolceacqua, pur essendo un piccolo Borgo ha un grande numero di eventi nel corso di tutto il periodo dell’anno.
Mercati:
Ogni prima Domenica del mese si svolge il Mercatino dell’Antiquariato mentre ogni ultima Domenica del mese si svolge il Mercatino dei Prodotti Tipici.
Gennaio: Alla domenica più vicina al 19 gennaio Festa di San Sebastiano con processione dell’Albero di Alloro ed enormi Crocifissi
Aprile: nei giorni del  ponte del 25 si svolge la tradizionale manifestazione “Carugi in Fiore”
Maggio: “I Tesori della Riviera di Ponente” evento sui prodotti tipici della zona
               “Music&Movies” Rassegna Cinematografica
Giugno: “Barone Rosso” Rassegna di Modellismo
Luglioe Agosto: eventi di tradizione oltre ad appuntamenti importanti come Rassegna di Lirica, Musica Sotto il Castello, I Fuochi d’Artificio, Commedie Dialettali, Sagre, Concerti Bandistici, etc…
Settembre: Dolceacqua con Gusto in collaborazione con Slow Food che vede la presenza di molti presidi alimentari italiani ed esteri.
Dicembre: Festa delle Lanterne e Fuochi di Natale

San Bartolomeo al Mare

 

FLORA, FAUNA E SPIAGGE D'ORO

San Bartolomeo al Mare è adagiato lungo la costa, a levante da Imperia. Si può raggiungere in breve tempo con l’autostrada (casello omonimo), con la linea ferroviaria e le linee autobus e anche dall’aeroporto di Villanova d’Albenga. Situato in una posizione climatica davvero felice, San Bartolomeo al Mare è una tipica località ligure in grado di offrire mille volti che cambiano durante l’anno e capace di soddisfare le esigenze di ragazzi (discoteche e divertimenti della bella spiaggia sabbiosa), delle famiglie e dei meno giovani, grazie alla piacevole e rilassante passeggiata.
La parte più attrezzata si è sviluppata recentemente sulla sponda sinistra del Torrente Steria, in una zona pianeggiante tra la via Aurelia e il litorale. Camminando per i viali si incontrano numerose aree verdi con pini, gerani, bouganville, mentre dai giardini si possono sentire profumi i profumi degli alberi da frutto. Immancabili gli uliveti: una cittadina balneare come San Bartolomeo ne conserva 300/400 ettari. Moltissime le specie vegetali che si incontrano, così come gli esemplari di animali e soprattutto uccelli marini tipo berte, sule, gabbiani e, in migrazione, rondini di mare.
La spiaggia consentono attività sportive diverse che vanno dagli sport nautici (vela, windsurf) al beach volley, mentre sulla “terraferma” trovano posto campi da tennis, da calcio, da bocce e pallavolo, piscina e spazi per esercitarsi al tiro con arco. C’è poi il nuovo porticciolo turistico che sta consolidando la propria operatività, in grado di offrire diversi servizi alle imbarcazioni. Senza dimenticare una bella nuotata nel mare pulito (i moli frangono l’impatto delle onde e l’acqua bassa è una sicurezza in più per i bambini) o una bella escursione nel verde (a piedi, in bici o a cavallo). In mare si pescano orate, spigole, muggini e triglie. La cittadina si anima di turisti accolti nelle numerose strutture ricettivo-alberghiere presenti nella zona.
Spazio alla buona musica, invece, grazie ai numerosi concerti che si svolgono presso i Giardini della Pace, accanto al Lungomare, e sul sagrato della Chiesa della Madonna della Rovere (manifestazione la “Rovere d’oro”). In questo ambito è importante la rassegna “Musica e Teatro”, organizzata dal Comune con l’Arci Nuova Associazione, coniugando le migliori voci del teatro e la canzone d’autore. A Ferragosto, la sfilata notturna delle barche.
STORIA
Due sono i nuclei originari, sorti distanti tra loro dietro la via Aurelia. Il borgo della Rovere si trova sulla costa a ponente e il ritrovamento di reperti in ceramica fanno risalire la data di fondazione all’epoca romana.
Meno antico il nucleo di San Bartolomeo, situato nei pressi dell’autostrada. La storia di S.Bartolomeo al Mare segue quella della zona di Diano con la quale confina strettamente. Dalla fondazione di Marsiglia (600 a.C.), i Greci cercarono sempre più di rafforzare la pressione sulla Liguria occidentale benché non siano andati oltre Monaco. I Liguri Intemeli, abitanti la costa, opponevano una tenace resistenza anche se dovevano affrontare contemporaneamente le mire dei Liguri montani. Il culto principale era legato a Belenus, dio del fuoco cui erano consacrate le feste di maggio (purificazione del bestiame).

Al tempo prolificarono i “castellari”, fortificazioni strategiche sui poggi, e gli “oppida”, dove stavano i governanti. Dal 300 a.C. cominciarono le scorrerie celtiche; durante le guerre puniche, il territorio si schierò dalla parte dei Cartaginesi nemici dei Romani, a loro volta alleati dei Greci. Nel 13 a.C. grande impulso ebbe il progetto della via Julia Augusta che portò allo sviluppo della “mansio” di Diano, le cui estensioni sono ancora rintracciabili presso il Santuario di Ns della Rovere a San Bartolomeo al Mare. Con la decadenza dell’Impero romano, la costa imperiese cadde sotto le invasioni barbariche e le scorrerie saracene. Attorno all’anno Mille, per il terrore della fine del mondo si susseguirono le donazioni agli ordini religiosi e si crearono feudi sotto i vescovi. Dalla fine del ‘400 si consolidò la pesca del corallo, tanto che un secolo dopo nacque l’ “Impresa di Bosa” (dall’autorità sarda) tra Cervo, Diano e San Bartolomeo al Mare che costituivano una “barcarezza”, flottiglia di barche scortate per precauzione contro i pirati. Tra le imbarcazioni la tartana, il leudo, la polacca, la gondola, la feluca, il cutter, la lombarda. Nei secoli si alternarono la Repubblica di Genova e il Piemonte, poi la dominazione napoleonica e il ritorno al Regno d’Italia. Nel 1891 la popolazione residente era di 993 abitanti. Tutto l’imperiese, infine, soffrì la tragedia della Seconda Guerra mondiale.
ARTE E CULTURA
San Bartolomeo città turistica e città d’arte. Soprattutto le Chiese meritano attenzione da parte del turista. Il Santuario della Madonna della Rovere vanta un sagrato in ciottoli bianchi e neri, tipici dell’architettura ligure. All’interno tre navate separate da pilastri poligonali; tra le bellezze custodite una statua della Madonna, un Crocifisso ligneo (XV secolo), alcuni pannelli di un polittico ‘500 e una tavola della Madonna con il Bambino Gesù. Ogni pezzo ha una sua leggenda. La statua della Madonna sembra sia il risultato della trasformazione operata dalla Vergine su un bastone per indicare a un pastore di Rollo dove edificare il Santuario. Il Crocifisso, portato al ritorno dal Monastero di Mondovì da pellegrini francesi, rimase nel terreno e lì fu lasciato quando fu udita una voce che disse “dove sta la Madre può stare anche il Figlio”. La tavola fiamminga, invece, appare divisa in due parti: una sarebbe quella originale; l’altra, perfettamente combaciante, fu portata da un pescatore di Cervo che l’aveva misteriosamente rinvenuta sulla spiaggia. La volta centrale conserva l’ovale affrescato di Tommaso Carrega, impreziosito da stucchi ottocenteschi. Della facciata originale (rifatta in stile neoclassico) resta il portale in ardesia con la rappresentazione dell’Annunciazione. Dalla Chiesa, per via Dante, si raggiungono le abitazioni dell’antico nucleo. Tra gli abitati originari, vale una visita il borgo di Poiolo con l’ampia piazza e le palme che avvicinano alla scoperta dell’intimo Oratorio di Sant’Anna (‘600). Nell’area dello svincolo dell’autostrada Genova- Ventimiglia, ci si imbatte in San Bartolomeo dove spicca la Parrocchiale tardomedioevale con campanile cuspidato. Rifatto nel ‘600, il tempio fu danneggiato dal terremoto del 1887. Tra le opere all’interno, il polittico di Raffaele e Guido De Rossi che raffigura “San Bartolomeo e Santi” (1562). Dalla strada principale, una diramazione porta a Pairola, frazione piuttosto sviluppata grazie alla pesca del corallo e all’olivicoltura che le consentirono di svolgere un ruolo influente per l’economia della zona. All’inizio del paese si incontra la Chiesa della Madonna della Neve; più oltre la strada si fa largo tra le colline terrazzate e coltivazioni. Nel 1975 è stata scoperta una nave a circa 40 metri di profondità a un miglio dalla costa: lunga 30 metri e larga 6, con 14 contenitori in terracotta per trasportare il mosto e un migliaio di anfore per il vino.

SPECIALITA’ LOCALI
Per chi apprezza la buona cucina, le specialità del comprensorio dianese riservano sorprese a ogni piatto, grazie alla versatilità del prodotti tipicamente liguri. L’ingrediente principe per le portate è l’olio extravergine prodotto localmente e spremuto nei frantoio con metodi che conservano la bontà e del qualità dell’oliva “taggiasca”. Immancabile la citazione del pesto (ottenuto con basilico e aglio), ma è anche vero che l’olio evidenzia pure i sapori del pesce, della carne e delle verdure. Si possono gustare piatti a base di crostacei e molluschi, le acciughe ripiene, orate al forno, frittelle di bianchetti. Nell’entroterra predominano i gusti del bosco: funghi, frittate e minestrone di verdura, tagliatella di borragine, lumache, cima. Non mancheranno mai gli aromi liguri (maggiorana, timo, salvia, origano, rosmarino) né i piacevoli vini, su tutti il Vermentino (bianco secco, leggermente fruttato, riconosciuto dal marchio Doc).

APRICALE

Il Castello della Lucertola è sede del Museo della Storia di Apricale, narrata attraverso memorie e documenti storici, materiali archeologici, cimeli, curiosità varie e la vita di figure ormai leggendarie; è anche un punto d'incontro artistico e culturale, che oltre alle mostre temporanee conserva e presenta al pubblico dipinti, disegni, grafici e sculture lasciati da numerosi artisti al paese per testimoniare il loro affetto e la loro partecipazione alla sua vocazione artistica.
La visita si svolge cominciando dalle stanze del piano rialzato; entrata e prima stanza, con rassegna fotografica delle manifestazioni nel Borgo e al Castello; stanza della Contessa della Torre Cristina Bellomo; stanza degli Statuti di Apricale; stanza del Risorgimento; stanze dei ricordi artistici su Apricale. Si passa poi al salone superiore, dove si svolgono prestigiose mostre d'arte moderna o contemporanea e si possono ammirare alcune sculture permanenti. Infine si visitano i sotterranei.

Il Castello e il museo sono aperti con i seguenti orari in estate, mesi di maggio e giugno ore 15-19 escluso il lunedì; luglio e agosto ore 16-19 e 20-22 tutti i giorni, la domenica anche al mattino ore 10,30-12. In inverno, tutti i giorni ore 14-18 escluso il lunedì, la domenica anche al mattino ore 10,30-12. Per informazioni rivolgersi alla Pro Loco o in Comune.

Ingresso

Salita una scaletta il visitatore è accolto in un piccolo locale dove è esposta una rassegna di bozzetti originali e di manifesti di Emanuele Luzzati legati alle rappresentazioni teatrali estive, a cominciare da quelli del 1990, primo anno della fortunata manifestazione...E le stelle stanno a guardare.

Stanza dei gatti

Così chiamata per i tondi dei quattro gatti simmetricamente affrescati sulla volta, questa stanza contiene una rassegna fotografica delle principali manifestazioni artistiche svoltesi ad Apricale e al Castello, corredata dai ritratti dei loro protagonisti.
Vi sono raffigurati, tra gli altri (in senso orario) ,il pittore Flavio Costantini, Enzo Pazzagli, cui si deve la scultura dell'Albatros sulla piazza, Danièle Noel e il suo "Atelier A" tuttora attivissimo in Apricale, le fotografe d'arte Gianna Ciao Pointier e Marianna Garabello, François Bouché e Georges Boisgontier, autori delle sculture del giardino pensile, la pittrice Gigliola Fazzini, il grafico Sergio Bianco, cui si deve l'installazione della bicicletta sul campanile, la stilista Carolyn Quartermaine e il fotografo Eric Morin, il pittore Enzo Cini (scomparso nel dicembre 2002), uno degli artisti che ha dato il vie alle fortune artistiche di Apricale, il pittore Eugenio Corradi, Emanuele Luzzati, artefice dello straordinario successo degli spettacoli notturni del Teatro della Tosse, il celebre Joan Miro, I'altrettanto noto Jean-Michel Folon, Hans Hedberg, autore della Mela esposta nel Castello, e infine Ben, artista d'avanguardia di Nizza.
Altre fotografie vengono aggiunte ogni anno, a conclusione di eventi e spettacoli.
In questa stanza sono state girate alcune scene del film Mare largo di Ferdinando Vicentini Orgnani, con Claudio Amendola e Isabella Ferrari, tratto dal romanzo Attesa sul mare di Francesco Biamonti (1933-2001) l'ultimo dei grandi scrittori liguri, nato e vissuto nel vicino paese di San Biagio della Cima Si prosegue la visita attraversando in successione le tre stanze di fondo, cominciando da quella dedicata a Cristina Anna Bellomo.

Stanza della Contessa della Torre

Al personaggio più affascinante della storia di Apricale è dedicata una stanza in cui sono raccolti pochi cimeli che le sono appartenuti e altri oggetti dell'epoca in cui la donna visse; sembra incredibile, ma non esiste una fotografia della bellissima Cristina.
Quella appesa alla parete sinistra è infatti dell'altrettanto seducente nipote Maria Pizzio, scattata durante la permanenza alla corte dello Zar a Pietroburgo.
Il manichino con sottoveste e corsetto, il letto a barca sovrastato da un ventaglio in piume di struzzo, la bacheca e il comò con oggetti diversi e il baule colmo di abiti e biancheria ricreano efficacemente l'atmosfera domestica del tempo (siamo a cavallo tra il XIX e il XX secolo), mentre copie di atti e documenti anagrafici attestano la nascita e la morte delle due donne.
La sagoma di Emanuele Luzzati è un'interpretazione della Contessa della Torre servita per lo spettacolo teatrale a lei dedicato.

Stanza degli Statuti di Apricale

Nella stanza accanto a quella della contessa, dotata di caminetto e di una stufa in ceramica smaltata, sono raccolti i più preziosi documenti originali della storia medievale di Apricale.
Gli Statuti sono esposti al centro del locale, in una bacheca illuminata da fasci di fibre ottiche a luce fredda.
A partire dall'alto si riconoscono sul primo ripiano il codice del1267, aperto su una doppia pagina con capilettera rossi, la copia del 1288 e l'altro codice del 1267; sul secondo alcune pagine restaurate risalenti al 1399, al 1293 e al 1248; sul terzo il codice del 1399; sul quarto gli Statuti del 1488 e la pergamena del 1442 concernente i diritti d'erbaggio e di pascolo nella bandita d'oltre Nervia; sull'ultimo il registro degli Atti di Bannalità (di controversia legale) del Comune di Apricale contro i marchesi Doria di Dolceacqua.
Gli antichi codici sono stati restaurati per conto della Regione Liguria dalla competente Soprintendenza, e restituiti l'8 aprile 1989 nel corso di una solenne cerimonia svoltasi nell'oratorio di San Bartolomeo di cui è esposta la documentazione fotografica.

Stanza del Risorgimento

L'ultimo ambiente affacciato sul versante settentrionale è dedicato in gran parte al tenente di cavalleria Giulio Nobile di Apricale (1799-1873), luogotenente di Carlo Alberto, che accompagnò il sovrano in esilio a Oporto nel 1849 ed ebbe in dono la sua spada, esposta nella bacheca all centro della stanza insieme ad alcuni documenti firmati dallo stesso Carlo Alberto.
Dalla parete sinistra, procedendo in senso orario, si osservano una stampa con scena dei Carabinieri Reali, un documento di stato civile di Pizzio Giovanni, il ritratto di Giulio Nobile e una sua lettera del 1847 indirizzata al fratello Giacomo, in cui si chiedono notizie sulla raccolta delle olive, sulla produzione e il prezzo dell'olio.
La bacheca sottostante accoglie antiche monete: due statere d'argento di Kroton (Crotone colonia della Magna Grecia, del 465-460 a.C.) e due denari d'argento di Giulio Cesare coniate in Gallia nel 50 a.C.; quindi un gruppo di dieci monete di varie epoche, dall'età romana agli ultimi secoli, rinvenute presso la casa Frati, lungo la strada Foa in località Misteru, nel comune di Apricale.
Alla successiva parete è esposta la stampa a colori della battaglia di Magenta (4 giugno 1859), su quella di fronte all'entrata alcuni documenti firmati da Carlo Alberto e riguardanti Giulio Nobile, e una bacheca con una piccola collezione di monete dello Stato Pontificio, del granducato di Toscana, del regno delle Due Sicilie e del regno d'ltalia.
Sulla parete alla destra dell'entrata si trovano un ritratto di Giulio Nobile del 1848, una stampa del re Carlo Alberto e la stampa dedicata ai "Grandi uomini che formarono l'ltalia" (Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II, Cavour).
Presso l'ingresso, una vetrina incassata nel muro contiene l'anfora vinaria integra di età romana di forma Dressel 6, in uso dalla seconda metà del I secolo a.C. al I secolo d.C., rinvenuta in località Case Toca nel Comune di Apricale.

Stanze dei ricordi artistici

Tornati all'ingresso si visitano le due stanze sulla destra. Nella prima sono raccolti alcuni dipinti di artisti contemporanei particolarmente legati ad Apricale.
Da sinistra, in senso orario Paesaggio di Jean-Michel Folon, Piatto con pesci e Composizione astratta di Klimeck, Bozzetto per il Teatro di Fiorato, Personaggio maschile di Adami, Apricale di Guy Ontillera, Composizione (collage) di De Luigi, Finestra sul mondo di Eugenio Corradi, La passeggiata di Dego, La chiesa della Salute a Venezia donato da Claudio Nobbio, due vedute di Apricale di Barbadirame e di Karlo Gabriele.
Al centro della stanza ci sono i plastici dell'abitato di Apricale e di un moderno progetto di urbanizzazione del Borgo frutto della tesi di laurea di Annette Begec discussa nel 2001 alla Bauhaus Universität di Weimar, in Germania.
Da questa stanza è possibile osservare l'anfora romana già descritta.
Segue una stanzetta che accoglie i lavori, per lo più serigrafie e incisioni, dei seguenti artisti (sempre da sinistra e in senso orario): Baviera, Bueno, Appel, Spilman, Verdet, Eward, composizioni di Xin di Venezia, Corradi e Ghelli.
L'originale quadro luminoso è la Fuga dal pentagramma di Gigliola Fazzini. L'acquerello nel piccolo corridoio che comunica con il giardino pensile e conduce al piano superiore è di Rosanna Biletta.

Castelvecchio di Rocca Barbena (Sv)

 

La nascita del borgo risale all’XI secolo, quando i Clavesana vi eressero il castello; in seguito il centro divenne una roccaforte dei marchesi Del Carretto. Dopo la fondazione di Zuccarello entrò nella sua giurisdizione, ma continuò a mantenere una certa importanza. Nel 1623 passò ai Savoia, quindi alla Repubblica di Genova con una lotta che ebbe il culmine nell’assedio del 1672; in quell’occasione i soldati piemontesi (comandati da un avo di Vittorio Alfieri) si dovettero arrendere per mancanza d’acqua, dato che il castello pur godendo di una validissima posizione strategica, contava solo sulle piogge per il rifornimento idrico. Dopo la vittoria, Genova vi stanziò, nel ‘700, una guarnigione stabile. Successivamente le vicende di Castelvecchio si confondono con quelle del resto della vallata, fino all’annessione al Regno di Sardegna.

Da vedere: La costruzione più imponente e complessa è senza dubbio il castello, che sovrasta il borgo con la sua mole massiccia. Fu eretto nell’XI secolo e conserva gran parte dell’impianto originale, nonostante le numerose modifiche che lo hanno interessato. Dal piazzale d’ingresso si gode una splendida visione della vallata.

La Parrocchiale dell’Assunta ha subìto rifacimenti nel periodo barocco, ma il campanile con cuspide è dell’edificio originario.

L’intero borgo è molto interessante per la sua architettura, che dal Medioevo ad oggi ha subìto poche modifiche; si possono scorgere i resti delle torri della cinta muraria ed esistono diverse case-fortezze a testimonianza dell’origine strategica del centro. Le abitazioni presentano numerosi elementi “mediterranei”, come i tetti a cupola o a terrazzo e i muretti per raccogliere le acque piovane. Molto belli “ i carruggi” contorti e sovrastati dagli archi antisismici delle case, e curioso infine il piccolo cimitero a forma di cuore che sorge poco fuori dal paese.

 

 

I

i tipici carrugiE' l'ultimo dei borghi murati della Val Neva, avvolto a cerchio intorno al castello che lo domina.
Sulle pendici della Rocca Barbena, in posizione dominante la vallata, Castelvecchio ha sempre avuto un notevole valore strategico.
La nascita del borgo risale all'XI sec., quando i Clavesana vi eressero il castello; in seguito il centro divenne una roccaforte dei marchesi Del Carretto.
Dopo la fondazione di Zuccarello entro nella sua giurisdizione, ma continuo a mantenere una certa importanza.
Nel 1623 passo ai Savoia, quindi alla Repubblica di Genova con una lotta che ebbe il culmine nell'assedio del 1672: in quell'occasione i soldati piemontesi (comandati da un avo di Vittorio Alfieri) si dovettero arrendere per mancanza d'acqua, dato che il castello, pur godendo di una validissima posizione strategica, contava solo sulle piogge per il rifornimento idrico.
Dopo la vittoria, Genova nel '700 vi stanzio una guarnigione stabile. Successivamente le vicende di Castelvecchio si confondono con quelle del resto della vallata, fino all'annessione al Regno di Sardegna.

Escursioni: al Colle di Scravaion (m. 820 s.l.m.); alla Rocca Barbena (m. 1142), che domina il paese; al Pizzo Ceresa (m. 714) o al Poggio Grande (m. 802). Ricordiamo infine che nei pressi di Castelvecchio di Rocca Barbena passano l'11^ e la 12^ tappa dell'Alta Via dei Monti Liguri; il posto di tappa relativo e presso «Trekking Rocca Barbena», in frazione Giro di Loano (tel. 78053).

LA STORIA DI TRIORA

di Andrea Gandolfo

DALLA PRIMA ETA' MODERNA AL 1815

Nel 1498, in concomitanza con la discesa in Italia delle truppe francesi guidate da Carlo VIII, Triora venne saccheggiata e incendiata dal duca Serranono, che faceva parte del seguito del re di Francia. Nello stesso anno, per risarcire gli ingenti danni subiti dal paese, venne istituita una Universitas crematorum hominum Trioriae, che aveva appunto il compito di aiutare finanziariamente le persone che avevano subito i maggiori danni a cose e abitazioni.

Tre anni dopo, il 25 marzo 1501, Triora concluse un altro trattato di amicizia e buon vicinato con Saorgio. Nel 1512, in occasione della nomina di Antoniotto Adorno a doge di Genova in sostituzione di Ottaviano Fregoso, i pittori Giovanni Battista Braida di Genova e Angelo Chierico o del Chierico di Messina, come era uso ad ogni cambiamento del governo genovese, dipinsero la bandiera di Genova e lo stemma del nuovo doge sulla facciata del palazzo comunale triorese.

Al 1519 risale invece una terza convenzione con il comune di Castelfranco, di cui però non è stata conservata la relativa documentazione. Come era già avvenuto nel 1512, essendo succeduto un nuovo doge a Genova, i pittori Pietro Caminata di Genova e Raffaele Fassòlo dipinsero nel 1522 le insegne genovesi (bandiera e stemma del nuovo doge) sulla facciata del palazzo del comune. Nel 1531 Genova istituì a Triora una scuola pubblica, assegnando al relativo maìsto (maestro) lo stipendio annuo di 200 lire.

Nello stesso anno si svolse un censimento generale della popolazione residente a Triora, da cui risultava che il paese di Triora era abitato da una popolazione stimabile in 500 fuochi, corrispondenti a circa 2500 abitanti, mentre gli abitanti dell'intero territorio comunale erano stimati in 680 fuochi, ossia 3400 abitanti. Il fuoco corrispondeva all'incirca a un nucleo di 5 persone.

Nel 1556 la parrocchia di Triora venne definitivamente trasferita nella chiesa della Collegiata, abbandonando la chiesa madre dei Santi Pietro e Marziano, che era stata edificata al di fuori dell'abitato. L'anno successivo, il 1557, registra la visita a Triora di Giovanni Lovera, inviato dal duca di Savoia da Cuneo a Bruxelles. Lovera aveva percorso la mulattiera che da Tenda portava a Taggia, facendo così tappa a Triora. Da Taggia proseguì quindi per Genova e Milano giungendo infine in Belgio dove venne ucciso l'anno dopo. Le più significative impressioni della sua sosta a Triora sono state descritte da Lovera nel suo diario di viaggio.

Il 20 luglio 1564 un forte terremoto devastò il Ponente ligure e il Nizzardo; a Triora si ebbero numerose case rovinate dal sisma. Nel 1573 venne stipulata una terza convenzione, dopo quelle del 1441 e del 1497, con il comune di Taggia, di cui non è però rimasta traccia documentaria. Due anni dopo, nel 1575, la castellana del marchesato di Maro (oggi Borgomaro) signora d'Urfè, chiese a Genova, nell'ambito della contesa dinastica che contrapponeva il marchesato di Maro al marchese e ammiraglio de Villars, di ordinare ai suoi ufficiali che erano di stanza a Triora di non concedere passaggio, favori, aiuti, vettovaglie e munizioni ai soldati del marchese de Villars. Nel 1579 Bernardino Alberti, notaio e fine scrittore di versi in latino e italiano, dotò Triora di una nuova scuola pubblica, che si affiancò o forse sostituì del tutto quella fondata da Genova nel 1531.

Verso la fine dell'estate del 1587, durante una carestia che aveva duramente provato la popolazione triorese e che durava da oltre due anni, gli abitanti di Triora, particolarmente stremati, iniziarono a sospettare che a provocare la carestia che stava flagellando le campagne del paese sarebbero state delle streghe locali, dimoranti nel quartiere detto della Cabotina. Dopo essere state individuate, le streghe trioresi vennero subito additate alla giustizia. Il Parlamento generale, dopo essersi riunito, affidò al podestà del paese Stefano Carrega l'incarico di fare in modo che le streghe venissero sottoposte ad un regolare processo e stabilì anche la somma di denaro occorrente per lo svolgimento del processo.

Carrega chiamò allora il sacerdote Girolamo Del Pozzo, in qualità di vicario del vescovo di Albenga, dalla cui curia dipendeva Triora, e un vicario dell'Inquisitore di Genova. I due vicari, giunti a Triora ai primi di ottobre, iniziarono quindi il processo dopo che Del Pozzo, con una infuocata predica nella chiesa della Collegiata, aveva denunciato le diaboliche "malefatte" operate dalle streghe a Triora eccitando in tal modo la collera del popolo triorese verso di loro.

I due vicari fecero allora arrestare una ventina di streghe, che vennero subito rinchiuse in alcune case private adattate a carcere delle streghe, dichiarandone subito colpevoli tredici, più quattro ragazze e un fanciullo. Dal momentò però che tali streghe, forse per estorcere loro la confessione delle loro "malefatte", venivano sottoposte ad atroci torture, ed avevano denunciato diverse "complici", tra cui non poche appartenenti alla nobiltà locale, la popolazione triorese iniziò ad intimorirsi e a nutrire dei dubbi sulla corretta condotta dei due vicari tanto da indurre il Consiglio degli Anziani, un organismo che rappresentava le famiglie più altolocate e benestanti di Triora, a intervenire presso il governo di Genova affinché questo facesse interrompere un processo che non dava più alcuna garanzia, soprattutto in merito all'incolumità fisica delle streghe, tra le quali una, Isotta Stella, era morta in seguito alle torture subite, e un'altra era deceduta per le ferite riportate nel gettarsi da una finestra per sfuggire ai suoi aguzzini.

Il 13 gennaio 1588, con una lunga lettera inviata al governo genovese, gli Anziani di Triora espressero le loro lamentele in merito alla condotta dei due vicari, giudicata eccessivamente severa nel valutare la colpevolezza delle streghe, che erano state arrestate solo in forza di indizi molto dubbi o perché denunciate da altre donne sottoposte ad indicibili tormenti ed erano costrette a rimanere in carcere nonostante non avessero confessato alcun crimine. Gli Anziani rimproverarono inoltre ai due vicari il fatto di tenere ancora in prigione donne che, per quanto tormentate, non avevano confessato niente e di non riconoscere innocenti delle deboli donne che avevano confessato e ritrattato in mezzo ad atroci tormenti.

Il doge e i governatori genovesi, dopo aver ricevuto la lettera degli Anziani di Triora, scrissero il 16 gennaio una lettera al vescovo di Albenga Luca Fieschi, facendogli presente le proteste che aveva causato il comportamento del suo vicario Girolamo Del Pozzo a Triora. Il 25 gennaio il vescovo Fieschi inviò a Genova una circostanziata lettera scritta da Del Pozzo, con cui il vicario ingauno si giustificava del suo operato ispirato, secondo lui, a criteri di legalità e giustizia e non condizionato dalle decisioni del Parlamento triorese, discolpandosi in particolare dall'accusa di aver torturato ingiustamente con la tortura dei tratti di corda le streghe incarcerate, tra cui, come si è ricordato, la sessantenne Isotta Stella, che era morta proprio in seguito ai patimenti subiti, e la donna che si era gettata dalla finestra, di cui Del Pozzo giustifica la fine dicendo che si era buttata non per paura delle torture che le si minacciavano, ma perché "tentata" dal diavolo. Il vicario si discolpò anche dalle accuse di non aver provato a sufficienza la colpevolezza delle donne incarcerate e torturate, che, tenne a sottolineare, erano in numero inferiore a quello che si voleva esageratamente far credere.

Il nuovo atteggiamento assunto da Del Pozzo placò comunque l'ira del Consiglio degli Anziani, che in una lettera al governo genovese del 20 gennaio, si diceva sostanzialmente soddisfatto dell'operato di Del Pozzo, soprattutto per il fatto che il vicario del vescovo di Albenga aveva rinunciato a incarcerare delle donne appartenenti alla nobiltà locale, di cui molti membri facevano parte dello stesso Consiglio degli Anziani. Anche il podestà Carrega si associò al parere degli Anziani scrivendo una lettera al governo genovese il 21 gennaio, in cui difendeva l'operato dei due vicari scagionandoli tra l'altro dall'accusa di aver provocato con le loro torture la morte di Isotta Stella e dell'altra donna che era deceduta in seguito alla caduta dalla finestra. Intorno al 10 gennaio i due vicari erano nel frattempo partiti da Triora lasciando in carcere tutte le streghe arrestate.

Ai primi di febbraio il Parlamento triorese, con una lettera inviata al governo di Genova, supplicò i governanti genovesi di provvedere alla revisione dei processi contro le donne trioresi accusate di stregoneria affinché le colpevoli fossero punite e le innocenti liberate e il popolo di Triora liberato dall'onta di annidare al suo interno delle donne eretiche. Il governo genovese allora, anche per tutelare i legittimi diritti dei suoi cittadini, decise di inviare a Triora l'Inquisitore Capo, che vi giunse ai primi di maggio del 1588. Egli ascoltò le donne incarcerate, che era erano detenute da cinque mesi e che negarono tutte, tranne una, quanto avevano confessato in precedenza ai due vicari, e decise di tenerle tutte in carcere meno una, una fanciulla di 13 anni, che venne liberata e il 3 maggio abiurò nella chiesa della Collegiata durante la celebrazione di una messa solenne.

L'8 giugno 1588 giunse a Triora il commissario straordinario Giulio Scribani, inviato dal governo genovese per fare chiarezza sui processi intentati alle streghe. Qualche giorno dopo l'arrivo del commissario Scribani, il nuovo podestà del paese Giovanni Battista Lerice, in seguito ad un ordine ricevuto dal Padre inquisitore di Genova, mandò a Genova per la revisione del processo le streghe detenute nelle carceri di Triora. Il locale bargello, ossia il capo della polizia, Francesco Totti si occupò del trasferimento delle tredici donne trioresi accusate di stregoneria, che gli vennero consegnate il 27 giugno. Intanto Scribani intentò regolari processi a diverse donne di Triora e dei dintorni, arrestandone diverse e sottoponendole ad atroci torture, che provocarono da parte del popolo le stesse lagnanze che si erano avute contro i due vicari qualche tempo prima.

Secondo una relazione inviata in giugno al governo genovese, Scribani individuò tre donne di Andagna, Bianchina, Battistina e Antonina Vivaldi-Scarella, che, benché non sottoposte ad alcun tormento, si erano dichiarate colpevoli di enormi delitti, tra cui anche omicidi di bambini innocenti di Andagna. Il commissario intentò processi anche contro una ventina di donne di Castelfranco, Montalto Ligure, Porto Maurizio e Sanremo. Il 22 luglio Scribani mandò quindi a Genova i verbali degli interrogatori delle streghe accompagnandoli con la richiesta di condanna a morte per quattro donne di Andagna. Appena ricevuta la documentazione inviata da Scribani, il governo della Repubblica affidò al suo auditore e consultore Serafino Petrozzi il compito di decidere in merito alle richieste avanzate da Scribani. Petrozzi respinse però tutte le conclusioni e le proposte di pena del giudice Scribani, sostenendo che non si potevano adottare provvedimenti punitivi mancando delle prove certe e inconfutabili.

Il primo di agosto il governo genovese invitò quindi Scribani, a cui era stata prorogata di un mese la missione a Triora, a mandare le prove relative ai delitti commessi dalle streghe come richiesto dall'auditore Petrozzi. Sette giorni dopo, l'8 agosto, Scribani rispose da Badalucco che non poteva inviare alcuna prova in quanto i delitti o erano stati commessi molto tempo prima cadendo perciò nell'oblio o erano avvenuti in luoghi fuori dai confini della Repubblica genovese. Sostenne però che i delitti consumati dalle quattro streghe di Andagna erano tutti sufficientemente provati. Nonostante ciò, in seguito alle obiezioni avanzate dal governo genovese, egli dovette rifare i processi a carico delle streghe di Andagna, che, con sentenza emessa il 30 agosto, vennero condannate a morte.

A Genova si decise allora di affiancare due altri commissari, il podestà Giuseppe Torre e Pietro Alaria Caracciolo, al giudice Petrozzi affinché si pronunciassero nuovamente sulle decisioni prese da Scribani. Messisi subito al lavoro, i tre giudici, contrariamente a quanto stabilito in un primo tempo, diedero parere favorevole alla condanna a morte delle quattro streghe di Andagna e di altre due streghe di Badalucco e Castelfranco, Peirina Bianchi e Gentile Moro. Dopo la decisione dei tre giureconsulti, il Senato genovese approvò la condanna a morte di cinque delle streghe accusate di delitti ordinando contemporaneamente di scrivere al vescovo di Albenga, affinché, prima che venissero eseguite le condanne a morte, le cinque condannate fossero riconciliate con la Chiesa.

Poco prima però di dar corso alle sentenze contro le cinque streghe con impiccagione e conseguente bruciatura dei cadaveri da eseguirsi quattro a Triora o ad Andagna e una a Castelfranco, giunse da Genova l'opposizione all'esecuzione delle sentenze da parte del Padre Inquisitore, che sostenne che prima di eseguire qualsiasi condanna a morte nel territorio della Repubblica genovese, spettava a lui, ossia alla Santa Inquisizione di Roma da cui egli dipendeva, fare il processo sui quali aveva diritto di giurisdizione l'autorità ecclesiastica.

Il 27 settembre 1588 il governo genovese informò quindi la Congregazione del Sant'Uffizio di Roma di aver accolto la domanda del Padre Inquisitore. Nel mese di ottobre il commissario Scribani inviò a Genova le quattro streghe di Andagna e una certa Ozenda di Baiardo, lamentando il fatto che la popolazione locale era rimasta molto delusa per la mancata esecuzione delle cinque condannate. Giunte a Genova via mare, le cinque donne vennero subito rinchiuse nelle carceri dell'Inquisizione. Poco tempo dopo il governo genovese mandò a Roma agli uffici della Congregazione del Sant'Uffizio gli atti relativi ai processi alle streghe incriminate.

La Congregazione tenne però gli atti per lungo tempo senza addivenire ad alcuna decisione tanto che il doge e i governatori genovesi scrissero più volte a Roma nel febbraio e nell'aprile del 1589 affinché il Sant'Uffizio prendesse quanto prima una decisione in merito. Il 28 aprile 1589 il cardinale di Santa Severina, a nome della Congregazione, assicurò il governo di Genova che erano stati impartiti ordini tassativi per una rapida conclusione della causa.

Il 27 maggio il doge e i governatori di Genova sollecitarono nuovamente la Congregazione, tramite il cardinale genovese Sauli, perché concludesse in tempi brevi la revisione del processo. Intanto, delle donne accusate di stregoneria detenute nelle carceri dell'Inquisizione genovese, due, tra quelle condannate a morte, erano nel frattempo decedute, mentre, delle tredici inviate da Triora nel giugno 1588, tre erano morte e le altre erano state probabilmente rimandate libere al loro paese natale. Il 28 agosto 1589 il cardinale di Santa Severina annunciò al governo genovese che il procedimento di revisione del processo era finalmente terminato.

Da quanto riferito dal cardinale di Santa Severina al governo di Genova, si può dedurre che il tribunale della Santa Inquisizione aveva presumibilmente cassato alcune delle condanne a morte comminate dall'autorità ecclesiastica genovese, stabilendo con ogni probabilità che le ultime tre streghe rimaste ancora nelle carceri genovesi venissero scarcerate. Nello stesso mese di agosto la Santa Inquisizione decise anche di aprire un procedimento contro il magistrato genovese Giulio Scribani per aver invaso il campo riservato all'autorità ecclesiastica.

Di fronte però alla strenua difesa dell'operato del proprio giudice sostenuta dalla Repubblica genovese, che ne aveva raccomandato l'assoluzione, i cardinali inquisitori decisero intorno al 10 agosto di assolvere Scribani con formula piena purché egli ne facesse pubblica richiesta al vicario arcivescovile di Genova, come infatti avvenne pochi giorni dopo. Il processo alle streghe di Triora del 1588 contribuì tra l'altro a mettere in luce le complesse motivazioni che erano alla base dei contrasti tra Stato e Chiesa in merito ai processi alle streghe, la grande facilità con cui tribunali di diversa natura si rimproveravano tra loro di eccessiva severità e le non lievi responsabilità dei giudici dell'epoca nel condannare senza adeguate prove, e spesso alla pena capitale, le donne accusate di stregoneria.

Il 6 gennaio 1592, sotto il governo del podestà Lodisio Canessa, il Parlamento generale affidò ad una commissione di esperti e giureconsulti il compito di riformare gli Statuti comunali del paese, la cui prima redazione risaliva alla fine del XIII o all'inizio del XIV secolo. Concluso il lavoro di riforma, gli Statuti vennero quindi approvati dal Senato di Genova il 3 novembre 1599; successive riforme furono attuate nel 1605 e nel 1620. In precedenza agli Statuti trioresi, che dovevano essere confermati ogni dieci anni dal Senato genovese, erano stati aggiunti 40 capitoli nel 1540; da quella data in poi non si parlò più di statuti, bensì di "capitula", cosicché i primi diventarono la legge e i secondi il regolamento che si doveva leggere pubblicamente davanti a tutto il popolo due volte l'anno nei mesi di gennaio e luglio. Gli Statuti rappresentarono la norma giuridica, etica e sociale a cui si informò tutta la vita triorese dal tempo della loro prima promulgazione fino all'età napoleonica, quando gli Statuti vennero abrogati.

Queste leggi regolavano inoltre minuziosamente anche la vita e l'attività economica del piccolo borgo ligure. Gli Statuti erano parte integrante dell'organizzazione statale di Genova in qualità di leggi locali e non si occupavano di gran parte del diritto privato, per cui era competente un magistrato locale, il pretore, che rinviava al tribunale di Genova le cause che non avevano trovato soluzione a Triora. La competenza dei magistrati locali si limitava esclusivamente ai reati espressamente previsti dagli Statuti.

Gli Statuti si soffermano nella prima parte sulle principali istituzioni politiche del comune di Triora, ad eccezione del podestà che, pur essendo il capo formale dell'amministrazione comunale, era un funzionario statale nominato direttamente da Genova. Gli organi più importanti del comune erano il Parlamento generale, il Consiglio dei Ventiquattro e il Consiglio degli Anziani. Gli altri uffici comunali erano costituiti dai sindaci, gli ispettori, gli stimatori, gli stanzieri, i campari che costituivano il corpo della polizia rurale, i rasperi, i notai, i ragionieri, gli scrivani pubblici, i massari e i magazzinieri.

Il Parlamento generale o Consiglio maggiore era la principale assemblea popolare del comune ed era eletta da un terzo degli abitanti di Triora e delle tre frazioni di Andagna, Corte e Molini. Le adunanze del Parlamento si tenevano nella sala comunale detta della "caminata", oppure nella chiesa della Collegiata, che ne fu la prima sede. Ogni decisione del Parlamento doveva essere approvata all'unanimità e, per essere valida, dovevano essere presenti almeno due terzi dei consiglieri, come erano detti i membri del Parlamento. L'elezione dei consiglieri avveniva a cadenza annuale da parte dei cosiddetti "grandi elettori", appositamente designati dal Consiglio minore.

I "grandi elettori", in numero di 14 (8 per Triora e 6 per le frazioni) erano designati dal Consiglio minore in una pubblica adunanza, che si teneva la prima domenica di aprile. La domenica successiva questi elettori prestavano giuramento nelle mani del pretore assicurando di scegliere i membri del Parlamento generale tra i cittadini con almeno vent'anni che si fossero particolarmente distinti per doti morali nel rispetto di Dio e del bene della collettività. Nella settimana seguente i "grandi elettori" preparavano le liste dei candidati, che, nella terza domenica di aprile, venivano eletti nominativamente con il sistema dei sassolini bianchi e neri. Al Parlamento generale spettava l'approvazione della nomina dei sindaci, degli anziani, dei ragionieri e degli stimatori eletti dal Consiglio minore. Il Parlamento aveva inoltre il potere di introdurre nuove tasse e di abrogare quelle in vigore.

Il Consiglio dei Ventiquattro rappresentava invece il vero e proprio governo del paese, con il potere di ratificare i trattati stipulati con i paesi vicini e di nominare gli ambasciatori del comune. La prima domenica di maggio, il Parlamento generale, in seduta comune, eleggeva 7 "grandi elettori", che, appena nominati, eleggevano in seduta segreta i 24 membri del Consiglio dei Ventiquattro (18 di Triora e 6 dei paesi minori), che dovevano essere tutti membri del Parlamento generale.

Una volta insediatisi, i 24 consiglieri eleggevano tra di loro un priore, che aveva il compito di sottoporre all'assemblea le questioni da esaminare. Il Consiglio, a cui spettava l'elezione di tutti gli ufficiali del comune, godeva di un appannaggio di 100 lire annue.

L'amministrazione della giustizia era affidata al Consiglio degli Anziani, che erano quattro, tre di Triora e uno di una delle tre frazioni, a rotazione annuale. Le sedute del Consiglio, che si tenevano il primo giovedì del mese, erano presiedute dal pretore, che era la massima carica della magistratura locale. Le sentenze di condanna erano valide se votate da almeno tre membri del Consiglio, mentre per quelle di assoluzione ne erano necessarie altrettante. I sindaci erano invece sei: il sindaco e il vicesindaco di Triora e i tre vicesindaci di Andagna, Corte e Molini, ed avevano il compito di difendere gli interessi del comune sui beni demaniali che gli appartenevano da atti giudiziari che li potessero danneggiare.

Erano inoltre chiamati a difendere i privati da malversazioni e abusi operati da magistrati o pubblici ufficiali. I due ispettori comunali avevano invece la funzione, sotto la direzione del pretore, di sorvegliare gli altri dipendenti del comune per controllarne l'operato con il potere di comminare sanzioni pecuniarie agli eventuali trasgressori.

Gli stimatori, eletti annualmente in numero di quattro, tre per Triora e uno per le frazioni, a turno, erano incaricati di varie mansioni, tra cui quella della manuntezione e dell'ampliamento delle strade e delle mulattiere, della designazione dei confini delle terre che il comune dava in concessione ai privati e dell'esecuzione dei pignoramenti. Le funzioni annonarie, di controllo cioè sui prezzi delle carni, del pane, del vino e dei generi che si vendevano al dettaglio, erano svolte invece dagli stanzieri. Alle operazioni di polizia rurale erano destinati i campari, 12 per Triora e 2 per ogni frazione, eletti dal Consiglio dei Ventiquattro, che avevano il compito di sorvegliare il territorio comunale diviso in diverse zone, ciascuna assegnata a un camparo.

Ai rasperi spettava invece il compito di tutelare i boschi e i beni del comune e di stimare i danni superiori alle 12 lire di cui non si era trovato il colpevole. I notai, pur non essendo propriamente dei pubblici funzionari, svolgevano un ruolo importante stilando le convenzioni di matrimonio, le donazioni e i testamenti privati e pubblici. I ragionieri avevano invece la funzione di tenere un registro delle pratiche comunali che era conservato nella cassaforte del comune e in cui erano registrate le entrate e le uscite del bilancio comunale. Ai magazzini comunali erano infine preposti i magazzinieri, che erano responsabili dei generi alimentari conservati nei magazzini.

Gli Statuti contenevano anche delle norme che regolavano la riscossione delle tasse da parte degli esattori comunali, che dovevano esigere i tributi nei due anni successivi alla consegna nelle loro mani del registro delle tasse comunali. Le tasse si dividevano in imposte sugli immobili, imposte indirette come le gabelle, e tributi che dovevano versare i forestieri che soggiornavano a Triora. Nel campo del diritto civile, gli Statuti presentavano delle disposizioni che riguardavano i lanci di pietre e le immissioni di fumo nei fondi altrui, le distanze tra gli alberi, lo stillicidio, la regolamentazione e l'utilizzazione delle acque, l'occupazione e l'usucapione dei terreni e i contratti di lavoro.

Per quanto concerne i beni demaniali, gli Statuti dettavano le norme che regolavano le concessioni amministrative per coltivare le terre comunali ed edificarvi determinate costruzioni, la tutela del patrimonio forestale e boschivo, la manutenzione delle sorgenti e delle fonti pubbliche, l'igiene pubblica con particolare riferimento alla pulizia ed al riattivo delle vie e la salvaguardia degli incendi.

Il diritto penale, pure contemplato negli Statuti, consisteva in una specie di tariffario, cioè un elenco dell'ammontare delle sanzioni pecuniarie che dovevano pagare coloro che si fossero resi responsabili di un reato, la cui punizione in termini di multa era direttamente proporzionata alla gravità dello stesso. Era prevista solamente una responsabilità oggettiva per essere punibili, cioè era sufficiente l'aver provocato il danno anche se incoscientemente e involontariamente, la recidiva portava ad un aggravamento della pena, e le pene erano esclusivamente di natura pecuniaria in rapporto al danno provocato, mentre, per i delitti più gravi, come gli omicidi, vigevano le leggi genovesi, che prevedevano anche l'impiccagione, il carcere o anni di remo sulle galere della Repubblica di Genova.

Gli Statuti contenevano inoltre delle norme che regolamentavano le attività agricole, la pastorizia, il commercio, la caccia e la pesca. In particolare, al tradizione mercato pubblico del giorno di San Lorenzo (10 agosto) venne affiancato un mercato da tenersi nel giorno di Santa Croce a maggio. Negli Statuti sono inoltre contenute norme che regolavano la tessitura e la vendita dei panni, l'attività dei mugnai, obbligati a macinare tutto il grano che veniva loro consegnato, dei fornai, tenuti a cuocere bene il pane, e dei tavernieri, che non dovevano permettere ai loro avventori di giocare a dadi o ad altri giochi d'azzardo; vi sono anche prescrizioni sulla vendemmia, il cui inizio era consentito solo dopo il giorno di San Michele (29 settembre) nella maggior parte del territorio triorese e dopo il 10 ottobre nel Villaro.

Varie disposizioni regolavano invece la gestione del patrimonio zootecnico locale con precise indicazioni riguardanti ad esempio le mulattiere attraverso le quali era concesso passare con il bestiame radunato in mandrie. La caccia non era invece direttamente regolamentata dagli Statuti, che tuttavia prevedevano dei premi in denaro per chi avesse ucciso determinati animali selvatici, mentre precise norme regolavano la disciplina della pesca, che non poteva essere effettuata con la rete o il barrello e sulla cui regolarità vigilava un guardiapesca stipendiato dal comune, il "gabellottus". Per quanto riguarda invece le procedure giudiziarie, gli Statuti di Triora non facevano alcuna distinzione tra procedura penale e procedura civile, prevedendo un'unica procedura valevole per qualsiasi questione presentata al tribunale locale.

E' opportuno a proposito sottolineare come la stragrande maggioranza delle norme di diritto contenute negli Statuti riguardassero quasi esclusivamente reati contravvenzionali, mancando del tutto norme che regolassero i delitti più gravi come l'omicidio, su cui poteva giudicare solo il podestà, osservando scrupolosamente quanto previsto dalle leggi della Repubblica di Genova. La competenza del pretore, il magistrato locale, era limitata esclusivamente alle disposizioni scritte negli Statuti, mentre per tutte le altre questioni legali era competente il foro di Genova, a cui il pretore triorese trasmetteva le cause.

Mentre era ancora in corso il lavoro di revisione degli Statuti, nel 1596, la chiesa di Andagna venne staccata dalla parrocchia madre di Triora. Due anni dopo, nel 1598, iniziarono dei lavori di ingrandimento della chiesa romanica della Collegiata. Risale invece al 1605 la cessazione ufficiale del titolo di podestà del comune di Triora, sostituito con quello di sindaco, anche se nei secoli precedenti i due titoli erano stati usati contemporaneamente, essendo in carica nello stesso tempo un sindaco e un podestà, ed anche dopo il 1605 i due titoli furono utilizzati indifferentemente ancora per qualche tempo.

Con un rescritto pontificio del 26 giugno 1610, la chiesa triorese di San Francesco, edificata nel 1593, venne aggregata alla basilica di San Giovanni in Laterano di Roma, ed divenne perciò possibile per i trioresi lucrarvi l'indulgenza plenaria quotidiana. Nel 1612 il patrizio romano e oriundo triorese Cesare Velli ottenne da papa Clemente VIII la concessione di speciali indulgenze per gli iscritti e le iscritte alle due confraternite di Triora, quella di San Giovanni Battista e quella di San Dalmazzo.

Otto anni più tardi, nel 1620, il canonico triorese Giovanni Velli, addetto alla collegiata di San Nazàro Maggiore di Milano, lasciò in eredità ai canonici di Triora la somma di diecimila lire. Il prelato lasciò inoltre delle rendite per la fondazione nel suo paese natale di una scuola di latino, che, esistente ancora agli inizi del Novecento, era detta appunto del "lascito Velli". Tre anni dopo, nel 1623, un'altra chiesa locale si staccò dalla chiesa madre: la chiesa di Corte venne scissa dalla Collegiata triorese.

Nell'estate del 1624 il duca di Savoia Carlo Emanuele I, con l'appoggio della corte di Francia, decise di attaccare la Repubblica di Genova per impadronirsi dei territori della Riviera ligure che erano ancora sotto il dominio genovese. In particolare, il casus belli fu rappresentato dall'acquisto nel 1622, da parte del governo genovese, del marchesato di Zuccarello, ambito fortemente dal duca di Savoia. Nel mese di settembre si tenne un convegno a Susa, a cui parteciparono il duca Carlo Emanuele I, l'inviato della regina di Francia Maria de' Medici maresciallo Lesdiguières, l'ambasciatore francese in Piemonte e l'ambasciatore della Repubblica di Venezia.

Nel corso del convegno venne deciso di muovere una guerra contro la Repubblica di Genova, al termine della quale i francesi avrebbero avuto la Corsica e lo stato di Genova fino a Savona, mentre al duca di Savoia sarebbe spettato il marchesato di Zuccarello e tutte le terre da Ormea e Oneglia fino a Nizza. Fu inoltre stabilito di attaccare subito lo stato genovese attraverso l'appennino ligure. Una volta varcato il confine che divideva il genovesato dal Monferrato, sul cui territorio il duca di Mantova diede libero accesso all'esercito del duca di Savoia, le truppe franco-piemontesi ottennero subito delle vittorie militari su quelle genovesi a Voltaggio e a Gavi.

Dopo che, per dissensi ai vertici del comando, i franco-piemontesi ebbero rinunciato a porre l'assedio a Genova, Carlo Emanuele I decise di indirizzare gli sforzi delle proprie truppe per la conquista della Riviera di Ponente, inviandovi settemila fanti, quattrocento cavalli e i figli Vittorio Amedeo e don Felice di Savoia. Il principe Vittorio Amedeo pose subito l'assedio a Pieve di Teco, strenuamente difesa dai fanti genovesi guidati da Girolamo Doria, che però cadde dopo cinque giorni di assedio e venna messa a ferro e fuoco dai piemontesi. In seguito anche altre città della Riviera, tra cui Albenga, Alassio, Porto Maurizio, Oneglia, Sanremo e Ventimiglia caddero senza opporre resistenza di fronte all'urto delle forze piemontesi, a cui dovettero pagare forti somme di denaro per evitare di essere sottoposte al sacco.

Il 7 agosto 1625 truppe franco-piemontesi con 500 soldati provenienti da Sospello e comandate dal commendatore francese Dandelot e da don Felice di Savoia, posero l'assedio a Triora. La popolazione triorese decise allora di resistere ad oltranza all'assedio opponendo una resistenza eroica e disperata con l'aiuto anche delle milizie cittadine e di quelle inviate da Genova. Quando però il 20 agosto i trioresi stavano per arrendersi e consegnare gli ostaggi al nemico, giunsero a Triora delle truppe ausiliarie provenienti da Taggia, Porto Maurizio e Sanremo guidate dal capitano G. Vincenzo Lercari, che costrinsero gli assedianti, tornati alla carica con 4000 soldati agli ordini di don Felice di Savoia, a togliere l'assedio al paese ed a tornarsene a Sospello, dove condussero prigionieri 130 ostaggi.

Durante i durissimi giorni dell'assedio, si distinse in modo particolare nell'incitare la popolazione a resistere agli attacchi del nemico il capitano genovese Pietro Antonio Cornero, che cadde in combattimento il 12 agosto nel corso di uno scontro a fuoco tra soldati genovesi e franco-piemontesi nei primi giorni dell'assedio del paese e venne poi sepolto nei sotterranei della sacrestia della Collegiata triorese, dove un'iscrizione ne ricorda il sacrificio. La felice conclusione dell'assedio, avvenuta il 20 agosto, giorno della festa di San Bernardo di Chiaravalle, indusse i trioresi ad attribuire all'intercessione del santo il merito principale della vittoria sui franco-piemontesi.

La comunità di Triora e quella delle tre frazioni, Molini, Andagna e Corte, decisero allora che da quell'anno in poi il 20 agosto sarebbe stato un giorno festivo per commemorare l'intervento di San Bernardo a favore di Triora, e che gli abitanti dei quattro paesi, in quell'occasione, si sarebbero recati in processione alla chiesa dei Santi Pietro e Marziano di Triora, che sarebbe stata restaurata in onore di San Bernardo, a cui sarebbe stato dedicato anche un altare nello stesso edificio religioso. Fallito anche un tentativo di impadronirsi di Genova attraverso una sollevazione interna, Carlo Emanuele I stipulò la pace con Genova nel 1641.

Nel maggio 1631, sei anni dopo l'assedio del 1625, il magistrato di Guerra di Genova inviò a Triora il commissario alle Armi della Repubblica Giovanni Vincenzo Imperiale con il compito di compiere un'ispezione delle fortezze del borgo. Imperiale stese quindi un'ampia relazione della sua visita in cui erano sottolineate la posizione strategica dei forti trioresi e il valore militare, unito alla tenacia e l'intraprendenza nel lavoro, dei suoi abitanti. L'anno successivo venne edificato su pilastri altissimi per portarlo all'altezza della piazza della Collegiata l'oratorio di San Giovanni Battista. In seguito, con decreto della Repubblica di Genova e relativo atto di divisione rogato dal commissario Giacomo Negrone il 2 maggio 1654, i paesi di Molini, Andagna e Corte ottennero la piena autonomia amministrativa da Triora con facoltà di dotarsi di un proprio consiglio o parlamento, che sarebbe rimasto in vigore fino alla proclamazione della Repubblica ligure il 14 giugno 1796.

Nel 1656 la popolazione triorese venne letteralmente decimata da una grave peste, che, partita dal porto di Villafranca, dilagò in tutta la Liguria. Dieci anni dopo, nel 1666, in relazione alla necessità di riformare le leggi ecclesiastiche locali, il pontefice Alessandro VII emanò una bolla, intitolata Provisionis canonicatus collegiatae et parochialis loci Triorae, che trattava degli obblighi e degli onori canonicali del parroco e degli altri prelati residenti a Triora. Nel 1670, essendo sorte delle contese fra Triora e Briga in merito all'intricata questione dei confini tra i due comuni, il re di Francia Luigi XIV inviò a Triora in qualità di legato con il compito di risolvere la questione confinaria tra i due paesi l'abate Ugo Servient.

Dopo esser giunto a Triora ed aver attentamente esaminato i termini giuridici della contesa confinaria, l'abate francese pronunciò un laudo o arbitrato sulla questione sulla sommità del monte Marta. Il tentativo di mediazione compiuto dall'abate Servient non risolse però affatto la contesa inosorta tra i due paesi tanto che l'anno successivo il duca di Savoia Carlo Emanuele II, prendendo proprio a preteso la situazione permanente di attrito tra Triora e Briga per la questione dei confini e dei pascoli ai confini dei loro territori, dichiarò nuovamente guerra alla Repubblica di Genova.

Per tutto il 1672 il territorio di Triora divenne dunque teatro di una serie di sanguinosi scontri militari tra le truppe piemontesi e quelle genovesi, nel corso dei quali le campagne circostanti il paese vennero pesantemente devastate e le masserie sparse sul territorio saccheggiate e messe a ferro e fuoco. A Triora vennero inoltre stanziati migliaia di soldati genovesi, cinquecento dei quali ingaggiarono uno scontro armato con le forze piemontesi sul colle del Pizzo. Dopo due anni di aspro conflitto sulle montagne prospicienti Triora, il duca di Savoia pervenne infine ad una nuova pace con Genova che venne stipulata il 18 gennaio 1673.

Intorno al 1700 la popolazione triorese e delle tre frazioni di Molini, Andagna e Corte raggiunse il culmine della sua consistenza numerica nell'età moderna, come risulta dal registro parrocchiale dei residenti nati e morti in quel periodo. Nel 1711 soggiornò a Triora per tenervi una serie di seguitissime prediche il famoso oratore padre Paolo Segneri iunior. Oltre trent'anni dopo, nel 1745, durante la guerra di successione austriaca, Triora venne occupata da un corpo di spedizione spagnolo. In questa occasione il vescovo di Albenga diede facoltà al parroco di Triora di permettere che i soldati disertori, rifugiatisi nelle chiese e nei conventi del paese, venissero catturati senza però che questi fossero sottoposti a processo e che i catturanti incorressero nella scomunica.

Il presule ingauno diede anche disposizioni affinché i feriti e i cadaveri dei soldati venissero portati all'infuori di chiese e ospedali in modo che le autorità militari potessero effettuare il bilancio degli scontri tramite la ricognizione dei morti e dei feriti.

Intorno al 1755, su iniziativa del gesuita triorese padre Antonio Stella, vennero trasportate a Triora le ossa di un giovane martire, detto Tusco, provenienti dalle catacombe di Roma e risalenti al periodo delle grandi persecuzioni contro di cristiani del III secolo. Le autorità comunali e religiose ne istituirono quindi la festa solenne, accompagnata da una grande fiera, da tenersi annualmente la seconda domenica di luglio. Il 28 novembre 1756, dopo oltre un anno di devastazione dei vigneti locali da parte dei bruchi e dei campi di grano da uno sciame di cavallette, il Parlamento triorese istituì la festa e la processione penitenziale detta del Monte per ottenere la liberazione dalla tremenda pestilenza. La festa del Monte si celebra ancora oggi la seconda domenica dopo Pasqua.

Nel 1770 furono eseguiti grandiosi lavori di rifacimento della chiesa romanica della Collegiata, che venne così trasformata in una chiesa barocca. Nell'ambito di questi lavori di ristrutturazione, venne anche data una nuova forma a cupola all'antico campanile a cuspide della Collegiata, il cui quarto giro, costituito da quattro colonnine centrali di pietra, fu sostituito dalla nuova cella campanaria. Intorno al 1773 iniziò ad impartire l'insegnamento del latino presso la locale scuola retta dai francescani e diretta da don Bartolomeo Gazzano, il beato Giovanni Lantrua, che si recava nella scuola francescana, detta del lascito Velli, salendo quotidianamente a Triora dal sottostante paese natio di Molini. Nel 1781 giunse invece a Triora il vescovo di Albenga Stefano Giustiniani per effettuarvi la periodica visita pastorale.

Dopo lo scoppio della rivoluzione in Francia, le truppe francesi invasero nel settembre 1792 la Savoia appartenente al regno di Sardegna, il cui sovrano Vittorio Amedeo III si era poco prima alleato con l'Austria. Il 29 settembre le avanguardie dell'esercito francese, comandate dal generale Andrea Massena, occuparono Nizza e tutta la fascia costiera della contea nizzarda. La buona linea difensiva predisposta dai piemontesi impedì però all'esercito francese di penetrare nelle valli Roia e Vesubia. Subito dopo a Parigi la Convenzione proclamò l'annessione di Nizza e della Savoia alla Francia.

Nel 1793, dopo l'esecuzione di Luigi XVI e l'entrata in guerra della Francia con tutti gli Stati monarchici d'Europa, l'armata francese in Italia venne aumentata a ventimila uomini e posta alle dirette dipendenze del generale Biron, che riuscì a penetrare nell'alta valle Vesubia. Anche alle truppe piemontesi, in seguito ad una convenzione con l'Austria, vennero aggiunti rinforzi costituiti da un corpo di soldati autriaci ammontanti a ottomila unità. Assunse quindi il comando del corpo di spedizione austro-piemontese sulle Alpi Marittime il generale di Sant'Andrea, mentre al vertice di tutte le truppe austriache e piemontesi venne nominato il generale austriaco De Vins, che avrebbe diretto le operazioni belliche da Torino.

La vetta dell'Authion divenne il fulcro della resistenza piemontese, che resse bene all'impatto delle forze francesi, che vi sferrarono tra il febbraio e il giugno 1793 quattro furiosi attacchi senza tuttavia riuscire ad impadronirsene. L'8 giugno 1793 avvenne un durissimo e sanguinoso scontro tra francesi e piemontesi con ingenti perdite da ambo le parti. Nel settembre successivo le truppe piemontesi tentarono di forzare lo sbarramento nemico e penetrare nella contea di Nizza, ma, dopo diversi furibondi attacchi respinti dai francesi, dovettero rinunciarvi.

Dopo che era fallito anche un analogo tentativo francese di penetrare in Piemonte attraverso la val Roia, il generale Massena e il giovane Napoleone Bonaparte, il futuro imperatore dei francesi, suggerirono al comandante generale delle armate francesi sul fronte italiano Dumerbion un nuovo piano strategico da attuarsi nella primavera del 1794, una volta terminata la stagione invernale. Il piano prevedeva l'aggiramento della stretta di Saorgio attraverso i passi di Collardente e Tanarello dopo aver occupato i pilastri laterali di Marta e Saccarello e la stretta di Ponte di Nava in val d'Arroscia. Basi di partenza per queste operazioni avrebbero dovuto essere Triora e il colle di Nava, che però appartenevano alla Repubblica di Genova da poco dichiaratasi neutrale. Le difficoltà derivanti dalla neutralità di Genova vennero però superate de facto con l'occupazione dei suddetti territori da parte delle truppe francesi.

Il 6 aprile 1794 le avanguardie dell'esercito francese, guidate dal generale Arena, varcarono i confini della Repubblica di Genova ed occuparono Ventimiglia. Una divisione francese, comandata dal generale Massena, per accerchiare le forze piemontesi che presidiavano monte Grande, entrò in val Nervia, raggiunse Pigna e Castelfranco, e, attraverso il passo di Langan, penetrò in valle Argentina. Una seconda divisione, agli ordini del generale Laharpe, rimase di presidio in val Nervia occupando Dolceacqua, mentre una terza, guidata dal generale Hammel, prese possesso del passo di Tanarda, tra monte Grai e Porta Bertrand, prospicienti l'abitato di Triora. Una quarta e ultima divisione, comandata dal generale Mouret, occupò il 9 aprile la città di Oneglia, l'unico porto di mare che era rimasto in mano ai piemontesi.

Lo stesso giorno, il generale Massena, che aveva fatto occupare Triora e vi aveva posto il suo quartier generale, prendendo alloggio nella casa dei Borelli ubicata nel quartiere Poggio, fece occupare a sua volta dalle truppe della divisione François monte Trono, sovrastante l'abitato triorese, in modo da contrapporre un valido schieramento alle postazioni piemontesi asserragliatesi sulle pendici del monte Pellegrino. Altri reparti appartenenti alla stessa divisione presero possesso dei monti Mónega e Grande per poter sorvegliare le mosse delle truppe avversarie schierate nei pressi del Ponte di Nava e del monte Fronté.

Nell'ambito dell'approntamento dello schieramento antipiemontese, il generale Massena ordinò anche il trasferimento a Triora dalla val Roia attraverso il passo di Langan della divisione guidata dal generale Hammel. Effettuati questi movimenti di truppe, il generale Massena scese da Triora a Oneglia la mattina del 12 aprile per tenervi un consiglio di guerra con i generali Mouret, Laharpe, Bonaparte e il tenente colonnello Rusca. Nello stesso giorno Massena impartì delle direttive alle sue truppe per sferrare un attacco alle postazioni nemiche nella stretta del Ponte di Nava. Ritornato a Triora, Massena si portò con le sue truppe al Colle di Nava, dove, insieme alla divisione del generale Mouret e all'artigliera comandata dal generale Bonaparte, sferrò un furioso attacco alle posizioni austro-piemontesi, che, nonostante una valida resistenza da parte del reggimento piemontese Lombardia, ebbe successo e si concluse con l'occupazione di Ormea il 17 aprile e di Garessio il giorno successivo.

Dopo aver ottenuto questo brillante risultato, il generale Massena rientrò a Triora, dove predispose il piano dettagliato dei futuri spostamenti delle sue truppe. La prossima azione prevedeva un'ampia manovra di aggiramento dello schieramento austro-piemontese allo scopo di penetrare in val Roia scendendo a nord della stretta di Saorgio e prendendo possesso dei passi di Collardente e Tanarello e le cime di Marta e Saccarello, tutti situati nell'alta valle Argentina. Il 25 aprile un primo attacco francese alle postazioni piemontesi sul monte Pellegrino venne respinto dai reparti comandati dal conte Saint Michel. Nel corso della giornata del 26 aprile gli zappatori del Genio, appartenenti al battaglione del tenente colonnello Rusca, eseguirono lavori oltre l'abitato di Realdo e nei pressi di monte Gerbonte per sgombrare la neve e riparare le mulattiere.

La mattina del 27 aprile partirono da Triora tre colonne di soldati francesi agli ordini del generale Hammel, mentre altre due si staccarono dalla regione retrostante il Saccarello e una terza dalla zona di Saorgio, alla volta dell'abitato di Loreto. Superata la gola di Loreto, le colonne, tra cui la principale era guidata dallo stesso Massena e dal tenente colonnello Rusca, si avviarono verso il passo di Collardente con l'obiettivo di far sloggiare i piemontesi dalla cima di Marta e penetrare quindi in val Roia.

La colonna comandata dal generale François ingaggiò subito uno scontro armato con una compagnia del reggimento Piemonte agli ordini del generale Vernata nei pressi del monte Pellegrino riuscendo però, grazie anche alla sovrabbondanza delle proprie forze rispetto a quelle piemontesi, a superare l'ostacolo e a raggiungere il monte Saccarello, dove si trovò di fronte le truppe piemontesi guidate dal tenente Di Montezemolo, che, dopo aver ricevuto consistenti rinforzi, riuscirono a respingere i ripetuti attacchi nemici.

Poco dopo i reparti piemontesi agli ordini del cavaliere Vialardi, coadiuvati da altri reparti mandati in rinforzo e guidati dal colonnello Bellegarde, ottennero un brillante successo sulle pendici del Saccarello sulla colonna francese del generale còrso Fiorella, che morì in combattimento insieme a trecento soldati e quindici ufficiali. Forti di questo successo, i piemontesi attaccarono anche la colonna del generale François, che venne sgominata e ricacciata in piena fuga e con grandi perdite su passo della Guardia e monte Pellegrino. Un altro battaglione francese venne duramente sconfitto nei pressi del monte Tanarello da un reggimento provinciale di Nizza. Al termine di questi combattimenti, i piemontesi, comandati dal colonnello Bellegarde, rimanevano i padroni assoluti della zona prospiciente i monti Fronté, Saccarello e Tanarello.

Sul fronte di Collardente la colonna francese guidata dal generale Bruslé ingaggiò un primo cruento scontro con le forze piemontesi e austriache presso il fortino di Tanarda, che si concluse con forti perdite da parte francese. Contemporaneamente, la colonna Hammel, con cui marciavano Massena e Rusca, sferrò un attacco violentissimo alle forze piemontesi presso la ridotta di Sansòn, che venne occupata dai francesi dopo un durissimo scontro corpo a corpo, che era costato quattrocento morti ai francesi e centocinquanta ai piemontesi.

Successivamente le colonne francesi guidate dai generali Hammel e Bruslé tentarono senza successo di impadronirsi del passo di Collardente, che venne strenuamente difeso dai reparti piemontesi. Dopo una notte di tregua, l'azione venne ripresa la mattina del 28 aprile con uno scontro presso le ridotte Linaire e Cima Piné tra la colonna francese agli ordini di Massena e Hammel e un battaglione del reggimento austriaco Belgioioso, che, datosi inspiegabilmente alla fuga, consentì alle forze francesi di dilagare verso la vallata sottostante.

Nelle prime ore della notte tra il 28 e il 29 aprile, il comandante della fortezza di Saorgio generale Saint Amour, vistosi minacciato di completo accerchiamento da parte delle truppe francesi, decise di ritirarsi con il suo presidio a Tenda nonostante il parere contrario dei componenti il consiglio di guerra della fortezza. Nel giugno successivo il generale Saint Amour sarebbe stato poi processato a Torino per aver abbandonato la fortezza di Saorgio disobbedendo agli ordini del comandante supremo generale Colli e conseguentemente condannato alla pena capitale e fucilato.

La sera stessa del 29 aprile le truppe del generale Massena scesero nella val Roia occupando Briga Marittima. L'avanzata verso il colle di Tenda venne poi ripresa solo il 7 maggio, dopo che le truppe francesi avevano abbandonato il presidio di Triora e della val Nervia. Le truppe di Massena occuparono quindi il colle di Tenda l'8 maggio, rimanendovi fino al 20 per riorganizzare le retrovie e i rifornimenti. L'anno successivo Massena avrebbe poi sconfitto i piemontesi in varie località liguri arrivando ad occupare Savona. A lui successe Bonaparte, che, dopo aver battuto i piemontesi a Montenotte e Millesimo, costrinse il re di Sardegna Vittorio Amedeo III a firmare l'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), divenuto in seguito trattato di pace, siglato a Parigi il 15 maggio successivo, in attuazione del quale il re di Sardegna cedette Nizza e la Savoia alla Francia e accettò l'occupazione di parte del Piemonte da parte di alcune guarnigioni francesi.

Successivamente, in seguito alla proclamazione della Repubblica Ligure (31 febbraio 1797) direttamente dipendente dalla Francia, Triora entrò a far parte del nuovo distretto dell'Argentina, comprendente 13444 abitanti, con Taggia per capoluogo. Il 20 maggio, per sottolineare la rottura con il vecchio regime, anche a Triora vennero discalpellati gli stemmi gentilizi dei portali del paese e delle tombe nelle chiese. Nella piazza della Collegiata venne piantato l'albero della Libertà, cerimonia che si sarebbe ripetuta anche negli anni successivi, e si fecero feste pubbliche a cui parteciparono moltissimi abitanti al canto della "Carmagnola". Il 1° agosto il Governo provvisorio ligure emanò quindi la nuova costituzione democratica della Repubblica. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, il popolo triorese, convocato nella chiesa parrocchiale, deliberò la soppressione dell'aumento sulla gabella degli erbaggi.

Il 14 settembre, con un decreto del governo provvisorio di Triora, venne stabilito di destinare una parte dei proventi dell'eredità lasciata al comune dal canonico triorese Giovanni M. Prevosto a favore dell'istruzione pubblica, mentre un'altra quota sarebbe stata utilizzata per costruire a Triora un ospedale per i poveri e realizzare un collegamento stradale con Briga. Nell'ambito poi della generale offensiva contro i membri del clero e i loro beni immobili, la municipalità triorese costrinse nello stesso 1797 i frati agostiniani a lasciare il loro convento e la chiesa di Sant'Agostino, edificata nel 1625, incamerandone i beni che ammontavano ad oltre centomila lire. Il 1797 venne anche funestato da una grave tragedia, che si consumò sulle alture della vicina Verdeggia, dove sedici persone morirono sepolte sotto una valanga di neve staccatasi dalle pendici del monte Saccarello.

Il 26 febbraio 1798 venne effettuato un censimento generale della popolazione del comune di Triora, che risultò ammontante a 9133 unità, di cui 2615 nel capoluogo, 1779 a Badalucco e 1155 a Castelfranco. Il 9 giugno la Liguria occidentale venne invasa dalle truppe piemontesi comandate dal conte Desgeney. A Triora si apprestarono le prime misure difensive con la trasformazione dell'oratorio di San Giovanni Battista in un luogo di concentramento delle truppe. Venne anche costituito un Comitato militare, presieduto dall'avvocato Luca Maria Capponi e dal cittadino Carabalone, che coordinò le operazioni militari dei volontari trioresi che si erano uniti ai soldati regolari dell'esercito genovese. Dopo poco tempo però Triora e il resto della Liguria occidentale dovettero capitolare e furono occupate dall'esercito piemontese.

Nel 1802 Triora fu incorporata nella Repubblica italiana, mentre due anni dopo passò sotto il Regno d'Italia. Nel 1802 si tenne anche un censimento della popolazione residente a Triora, da cui risultò che il comune era abitato da 5828 persone con un decremento dovuto alle numerose epidemie e carestie che avevano interessato la popolazione ligure alla fine del XVIII secolo. L'11 febbraio 1803, con decreto della Repubblica Ligure, vennero abrogati gli Statuti comunali trioresi insieme a quelli di tutti gli altri comuni della Liguria, anche se tali speciali leggi comunali rimasero formalmente in vigore a Triora ancora per qualche anno, almeno fino al 1819.

Pochi mesi dopo, il 2 giugno 1803, il governo della Repubblica Ligure emanò una legge in virtù della quale Triora veniva eretta a capoluogo dell'ottavo cantone della sesta giurisdizione, una delle sei divisioni amministrative in cui fu ripartito il territorio ligure, con residenza della municipalità e del giudice cantonale di prima classe. Il 2 dicembre 1804 il Senato di Genova supplicò l'imperatore Napoleone Bonaparte di annettere la Liguria all'Impero francese. La richiesta venne accolta ufficialmente il 5 maggio 1805. Con decreto infine del 17 pratile dell'anno XIII (5 giugno 1805), la Liguria venne riunita alla Francia e divisa in dipartimenti. Triora entrò a far parte dell'85° dipartimento delle Alpi Marittime, che aveva come capoluogo Nizza, in qualità di comune del secondo circondario di Sanremo.

Nel 1806, in ottemperanza a quanto disposto dal governo napoleonico a Saint-Cloud il 2 giugno 1804 sull'obbligo di seppellire i morti nei cimiteri anziché nei sotterranei delle chiese, anche a Triora si iniziò a seppellire i morti fuori dalle chiese e precisamente in un tratto di terreno, detto Trunchettu, adiacente all'antica chiesa parrocchiale di San Pietro. Tale zona era stata riservata fino al XIV secolo a luogo per le esecuzioni capitali, ossia le impiccagioni, che vennero poi trasferite nel Fortino, detto negli Statuti anche "carmo furcarum", cioè sommità delle forche. Prima del cimitero del Trunchettu, i defunti trioresi venivano sepolti nei sotterranei della chiesa della Collegiata, di San Francesco e di San Pietro. Il 25 marzo 1810 un decreto imperiale del governo napoleonico conferì a Triora il titolo di "Ville" (Città) come riconoscimento della particolare importanza politica e economica che il paese ligure aveva raggiunto sotto la dominazione francese.

Dopo l'abdicazione di Napoleone nell'aprile 1814 e il generale sfaldamento del suo vasto impero, a Genova venne ricostituita la Repubblica Ligure. Nel mese di maggio il sindaco di Triora, allora detto alla francese maire, Luca Capponi si recò a Genova, insieme ad una delegazione di altri sindaci della Riviera di Ponente, per esprimere al governatore inglese Lord Bentinck le sue felicitazioni per la restaurazione della Repubblica Ligure. La Repubblica era però destinata a breve vita in quanto i plenipotenziari europei riuniti a Vienna in congresso stabilirono che la Liguria, corrispondente al Ducato di Genova, sarebbe passata sotto la sovranità del Regno di Sardegna.

L'annessione del Ducato di Genova al Regno sardo venne ratificata con un trattato approvato a Vienna il 9 giugno 1815. Nello stesso anno il territorio del Regno di Sardegna fu diviso in province: Triora con tutto la zona compresa tra il fiume Varo e Oneglia sulla costa e fino a Tenda nell'entroterra venne inclusa nella provincia di Nizza, a cui sarebbe rimasta legata amministrativamente fino al 1860, mentre, per le riscossioni tributarie, venne messa alle dipendenze di Savona, capoluogo del dipartimento finanziario, a decorrere dal 18 aprile del 1815.

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Università degli Studi di Genova
C. Montecarlo 40 - La Mortola
Biglietteria Informazioni Tel. 0184 229507

Nel 1867 il giovane Thomas Hanbury, che risiedeva nella Costa Azzurra, rimase affascinato dal promontorio verdeggianate che, a La Mortola. si protende nel mare in un rapido declivio. Egli decise di acquistano e progettò di farne un giardino di acclimatazione introducendovi piante esotiche provenienti dalle più lontane regioni del mondo. il suo acquisto che man mano si estese fino a un’area di 18 ettari, prevede va una zona coltivata e una lasciata a vegetazione naturale di tipo mediterraneo. Aiutato dal fratello Daniel, studioso di piante medicinali, da insigni botanici tedeschi e inglesi da valenti giardinieri residenti a La Mortola stessa e da altri chiamati dal nord Europa, egli portò avanti il progetto che aveva stimolato la sua iniziativa. Ristrutturata la vecchia villa dei Marchesi Orengo, tracciata una fitta rete di piccole strade e scalinate, il giardino via via si delineava in forme architettoniche originali e in spazi a vegetazione esotica. Sir Thomas divenne il "Mecenate" del La Mortola dove fece costruire anche una scuola; arricchì di fontane i villaggi adiacenti, volle donare all’Università di Genova una villa che, tuttora, rappresenta l’Istituto Botanico della Facoltà di Scienze. Alla morte di Thomas Hanbury, nel 1907, le sue ceneri vennero deposte in un mausoleo che si trova nel giardino.
La sua opera fu continuata da suo figlio Cecil e dalla moglie Dorothy. Venne sfilato un catalogo pubblicato dalla Oxford University Press, che contava allora 6000 specie.
Scoppiò la guerra, il magnifico complesso subì gravi danni non fu più possibile restituire al giardino lo splendore iniziale. Nel 1960 Lady Dorothy decise di vendere la proprietà allo Stato Italiano.
L’istituto di Studi Liguri di Bordighera cui fu affidato. tentò di farlo rinascere, ma la mancanza di fondi non permise una ristrutturazione del complesso. Nel 1987 le consegne del giardino passarono all’Università di Genova. L’aspetto botanico viene ora curato da un direttore, un curatore, una dozzina di giardinieri e un gruppo di tecnici, mentre il ripristino delle strutture è affidato alla Sovraintendenza per i Beni Culturali e Architettonici

L’ANTICO PRINCIPATO DI SEBORGA,
1079 AD
IL PRINCIPATO DEI FIORI

 

 

L'Antico Principato di Seborga si trova sulle colline della Liguria di Ponente, sulla rinomata Riviera dei Fiori, a pochi minuti dall’autostrada Nizza/Genova.

Da come era nel X°secolo – quando i territori delle attuali Bordighera, Vallebona, Vallecrosia ed altri ancora facevano parte del Principato – oggi il Principato occupa 14 km² di soavi colline ricoperte di fiori e vegetazione.

Click for larger versionLa "capitale" SEBORGA, che ospita 362 abitanti su una superificie di 4 km² oltre ai 2000 residenti esteri dell’antico Principato, é amministrata dal suo proprio Comune con il Sindaco e la Giunta comunale.


La capitale, trovandosi a 522 m. di altidudine sul livello del mare, gode di un clima particolarmente mite, dove le foschie mattutine del Mediterraneo (3 Km. in linea d’aria) guidano i visitatori nella scoperta delle mura del vecchio castello a quattro torri (Castrum Sepulcri).

La sua vista imprendibile copre la costa di Bordighera, il vicino Principato di Monaco e la Costa Azzurra francese.

Le città vicine come Bordighera, Vallecrosia e Camporosso sono una parte esistente di cio’ che era una volta il Principato e sono oggi centri in piena espansione ricchi di bei negozi ed eccellenti ristoranti.

Il Principato di Seborga è un po’ per il Principato di Monaco quello che Andorra è per la Francia, un posto fuori dal comune, carico di storia, vicino alla natura, con un’atmosfera particolare cara ai grandi artisti come Monet.

Il 20 agosto, data in cui San Bernardo e la sua processione sfilano tra le mura, i Seborghini celebrano la loro Festa Nazionale. Eventualmente in questa occasione S.A.S. Giorgio I procede alla cerimonia di investitura dei suoi Cavalieri.